Capitolo Quattro

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Spalancai gli occhi.

Sentii una raffica di spari provenire da una mitragliatrice montata su un braccio robotico che penzolava dal soffitto. Non pensai. Agii.

Non so bene come descrivere la sensazione che provo ogni volta che uso le mie abilità. Non dolorosa. E' più come un anormale dispiego di energia. Un paio di volte, durante gli allenamenti più intensi, quando Irina voleva vedere fino a che punto riuscivo a spingermi, ho rischiavo di svenire. All'inizio non ne avevo nessun controllo. Quando ero felice, triste o arrabbiata, cominciavo a deformare gli oggetti che si trovavano vicino a me. A volte esplodevano, a volte cambiavo la loro struttura.

Un'altra abilità che mi era stata donata dalla modifica del mio codice genetico era la possibilità di manipolare la mia struttura molecolare così da rendermi invisibile e intangibile. Una volta, quando avevo cinque anni, durante un allenamento senza volerlo diventai invisibile. Nonostante gli sforzi per tornare visibile e avessi seguito le direttive dei medici, rimasi impercettibile per giorni. Alla fine mi trovarono dopo una settimana e mezzo mentre ero nel mio letto a dormire, stremata per aver usato per tutto quel tempo le mie capacità.

Con gli anni, però, avevo imparato a usare le mie abilità solo quando lo decidevo io.

Il mio corpo smise di vedersi, di esistere. I proiettili mi attraversarono ma io non sentii nulla. Il robot cominciò a sparare muovendo la canna per tutta l'aula. Sorrisi. A quanto pareva gli scienziati avevano fatto qualche modifica dall'ultima esercitazione. Non avevano uno schema i suoi spostamenti. Non potevo rischiare di avvicinarmi e tornare materia per toccare quell'affare. Così cominciai a contare i bossoli cadere, ancora caldi, sul pavimento: 68, 69... 70. Corsi dritta verso il braccio robotico, prima che avesse tempo di ricaricarsi di proiettili. Quando mi avvicinai alla mitragliatrice. tornai visibile e afferrai quell'affare. La mia mano cominciò ad accelerare le molecole al punto che iniziai a sentire liquido sotto il mio tocco. Avevo finito. Una risata mi stava salendo in gola, ma lì rimase bloccata. Ero così impegnata a beffarmi di chi aveva modificato il mio esame, cercando di mettermi in difficoltà, che quasi non percepii uno scatto dietro di me. Mi girai appena in tempo per vedere una pistola fare fuoco verso la mia direzione.

Sgranai gli occhi. Allora era così che morivano i Normali a volte? Trapassati da un proiettile incandescente che entra esce in un attimo? Stavo per morire come un qualsiasi altro Normale? Mi veniva da ridere. Chiusi gli occhi e attesi l'arrivo di quella pallottola.

Solo che il proiettile diretto verso di me non mi raggiunse mai. Dopo venti secondi di assoluto silenzio cominciai a chiedermi se fossi già morta o se fosse stata solo la mia immaginazione a vedere quella pistola e sentire lo sparo.

Aprii gli occhi.

La pistola effettivamente c'era, com'era vero anche lo sparo. E vero come il proiettile che stava fluttuando nell'aria a un centimetro dalla mia fronte. Mi si stavano incrociando gli occhi a furia di fissarlo paralizzata.

Lo avevo davvero bloccato?

Udii l'attivarsi del microfono installato nel soffitto della stanza.

«Ottimo lavoro 3.14P. Ora ha terminato l'esaminazione.» Era la voce di uno degli scienziati ancora rinchiusi nella saletta protettiva. Lo specchio era crepato su alcuni punti, colpito dalla raffica di proiettili durante la mia esaminazione. Lo avrebbero dovuto sostituire.

Continuai a guardare il proiettile che non aveva ancora smesso di fluttuare in aria. Feci un passo verso sinistra, per sicurezza. Metti che gli prendeva il matto e, la morte cui ero appena sfuggita per un soffio, fosse tornata a reclamarmi?
Fu solo quando tolsi il contatto visivo con la pallottola che questa cadde tintinnando sul pavimento. Rotolò fino a toccarmi le sneakers.
Lo avevo fatto. Ero riuscita a bloccarla. Non ci potevo credere! La prima volta non ci ero riuscita. Ero riuscita a fermarla!

Aspetta un momento. "La prima volta non c'ero riuscita". E quello fu il momento che sbloccò il ricordo.

Brutti stronzi.

L'ultima volta non ero riuscita a fermarla, dieci anni fa. La pistola non era stata calibrata bene quindi il proiettile mi sfiorò il braccio lasciandomi una brutta cicatrice. Non ci riprovammo più. O almeno, non prima di oggi.

Quei deficienti non potevano avere nessuna certezza che ci sarei riuscita quella volta. A quell'ora potevo essere morta, sdraiata sul pavimento con un buco in fronte.

Ripetei: Brutti stronzi.

Sarà stata per la rabbia che mi aveva provocato quel ricordo ma la pistola esplose in mille pezzi. Alcuni si conficcarono nelle pareti.

Gli scienziati, che non si erano mossi dal loro angolo di salvezza, mi fissarono a bocca aperta. Anche dal laboratorio non arrivarono commenti.

Con quanta più calma riuscii a incanalare in me, annunciai: «Ora è finito».

Pensai che lo scatto d'ira avesse fatto arrabbiare Irina quindi la cercai con lo sguardo. Ogni volta che qualcuno perdeva il controllo, la dottoressa Morozova andava su tutte le furie. Per questo pensai di avere le allucinazioni quando, invece della sua solita smorfia di disapprovazione, la vidi con un sorriso soddisfatto stampato sulle labbra. Dovevo aver intaccato anche il mio cervello in qualche modo. Troppo uso delle mie capacità per un solo giorno. Avevo bisogno di un bagno caldo.

Sentii un applauso provenire dalla porta. Il signor Cutolo e la dottoressa Morozova mi avevano raggiunto.

«Non ho parole! È meraviglioso! Un esperimento veramente meraviglioso! Proprio un bel lavoro dottoressa Morozova».

« La ringrazio. Allora le chiedo gentilmente di aspettarmi nel mio ufficio per sistemare le ultime cose e poi saremo pronti per il trasferimento. Ora, se volete scusarmi, vorrei fare due parole con 3.14P»

Con me? E da quando parlavamo da sole io e quella lì?

Avevo veramente bisogno di un bagno caldo.

«Sì certo, ci mancherebbe. Vi lascio sole» E dopo un'ultima insistente occhiata al mio corpo, ci salutò e se ne andò, seguito dagli ultimi tecnici, ancora scossi per la mia sfuriata.

Ora eravamo sole. Quando mai ero rimasta sola con lei? Mai, ecco il punto. Con noi c'erano sempre dipendenti che gironzolano per farmi domande oppure per eseguire degli accertamenti.

«Lui sarà la tua nuova famiglia. Ha una grande tenuta nel sud Italia, ho fatto esplicita richiesta che ti tratti bene. Vedrai. Non sarà male vivere lì» Da quello che avevo sentito prima, avevo i miei dubbi. Avrei potuto scommettere che appena arrivata in quella casa avrebbe cercato di mettermi le mani addosso. Ma io non ero una puttanella da quattro soldi e in quella casa non ci avrei mai messo piede.

«Non si preoccupi dottoressa Morozova, saprò badare a me stessa» e non sai nemmeno quanto.

«Mi sono sempre chiesta perché tu ti ostini a chiamarmi così».

«Così, come?».

«"Dottoressa Morozova"».

«Scusi... ma come dovrei chiamarla?»

«Beh, come mi chiamano anche i tuoi fratelli e come anche tu mi chiamavi un tempo. Mamma»

Ah! Neanche per tutto l'oro del mondo l'avrei più chiamata così. Lei non era mia madre. Preferivo non avere proprio una madre invece di definire lei tale. Era una creatrice di assassini. Lei stessa era un'assassina. Non teneva ai suoi esperimenti come a dei figli. Perché allora noi dovevamo trattarla come una madre?

«Mi dispiace ma non mi sentirei a mio agio. Ho troppo rispetto per lei, dottoressa Morozova. Se permette, ora dovrei andare. Devo ancora finire di impacchettare le mie cose. Arrivederci.» Volevo allontanarmi da quella persona il più presto possibile.

« Solo un'ultima cosa. Il chip della struttura ti sarà tolto prima della partenza. Una volta arrivata nella tua nuova casa ti sarà inserito quello nuovo. Il signor Cutolo non vuole che qualcun altro abbia un qualche controllo sulle sue proprietà. Ti manderò a chiamare quando saremo pronti per la rimozione». Proprietà? Nemmeno lei ci prova a considerarmi come una persona, figuriamoci come figlia.

«D'accordo. Allora, buona giornata» e dopo un lieve sorriso me ne andai, lasciandola lì, da sola.

π - La diversità sfugge al controllo -Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora