Capitolo Dieci

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«Paga paga paga» cantilenò Uno, saltando sopra a Dodici e prendendolo sotto braccio.

«Ah, dannazione! Speravo non ve ne foste accorti» sopirò Dodici, sfuggendo alla presa di suo fratello.

«Stai scherzando spero! Si è sentito per tutto il centro!» Rise Uno, intascandosi i soldi e sedendosi sul mio stesso sdraio.

«Che succede?» Domandò Diciassette dopo averci raggiunto all'ultimo piano del Planetarium, insieme a Diciotto. Erano appena passate le dieci di sera di Giovedì. Mancava un'ora al coprifuoco. Ormai tutti ci eravamo ripresi dall'intervento del giorno prima.

«Nulla di che. Una scommessa» specificò Diciotto, buttandosi sullo sdraio di fianco al nostro.

Diciassette ci guardò con aria interrogativa: «E perché io non ne sapevo nulla?»

«Perché eri tu il soggetto della scommessa» intervenne Uno, sporgendosi all'indietro e reggendosi con i gomiti.

«Aspetta, cosa?» Diciassette strabuzzò gli occhi, sconcertato.

«Avevamo scommesso su chi avrebbe piagnucolato durante la rimozione del chip» dissi, sporgendo la mano verso Dodici, che si era seduto al fianco di Diciotto.

«Tre? Anche tu?!» piagnucolò Diciassette, sedendosi a terra, fra le due sedie a sdraio.

«Mi dispiace, ma non rifiuto soldi facili» scherzai, infilandomi i soldi dentro la tasca.

«Maledetti» sussurrò Diciassette mentre rivolgeva a tutti noi uno sguardo di astio: «Ma se Dodici deve pagare tutti quanti, lui su chi aveva scommesso?»

Dodici di risposta emise un profondo sospiro, mettendosi a sedere: «Su Otto. Speravo che il mio fratellino riuscisse a sopportare un po' di dolore!» e fece una smorfia di disapprovazione verso Diciassette.

«Grazie tante» sbuffò Otto che era rimasto in disparte, appoggiato alla ringhiera di fronte a noi.

«Nessun rancore?» chiese conferma Dodici, con sguardo speranzoso.

«Figurati» rispose Otto, soffermando lo sguardo su di lui.

Ad un certo punto Dodici si alzò di scatto dallo sdraio e cominciò a correre avanti e indietro, strillando e agitando le mani, come a cercare di scacciare qualcosa di invisibile: «Toglietemele di dosso!» pregò e andando ad inciampare dentro un'aiuola.

Otto si rilassò e interruppe il contatto visivo: «Okay, ora non provo più rancore».

Dodici si rialzò a fatica, sporco di terra dalla testa ai piedi: «E dai Otto! Sai che quelle bestiole mi danno fastidio!».

«Fatico ancora a capacitarmi come tu possa avere paura delle farfalle. Non ne hai nemmeno mai vista una dal vivo» criticò Otto, guardandolo ridente.

«Mi sono bastate le foto nel libro di scuola. Sono orrende con quel corpo minuscolo e le ali giganti e le zampette. Per non parlare poi delle antenne, bleuh» confessò Dodici, prima di avere un brivido.

Tutti noi scoppiammo a ridere.

«Otto, mi hai dato una bella idea» ridacchiò Diciassette, alzandosi da terra e indietreggiando di qualche passo. Subito dopo un getto d'acqua gelida inzuppò me, Uno e Diciotto. Quest'ultima strillò e, non appena si riprese dallo spavento, si alzò e cominciò a rincorrere Diciassette per tutto il piano, cercando di lanciargli scosse elettriche.

Quando, dopo quindici minuti buoni, Diciotto si stancò di rincorrere Diciassette, tornammo tutti a sederci vicini. Intanto Uno era andato a pendere degli asciugamani nell'intento di asciugarci alla bell'e meglio.

Diciotto ne afferrò uno, cominciando ad asciugare la criniera bionda, e si mise il più distante possibile da Diciassette: «Ti conviene dormire con un occhio aperto stanotte piccoletto» lo avvertì.

«D'accordo, Time out. Ora cominciamo a parlare di cose serie: dove verrete mandati?» domandò Dodici, cercando di togliersi la terra dalla faccia.

«Mia zia abita in Nuova Zelanda» cominciò Diciassette. «Mi ha detto che vive in una villa affacciata sull'oceano. Non mi è andata male».

«Non lontano: la mia futura famiglia è originaria di Myanmar» rispose Diciotto.

«Norvegia» continuò Otto, ancora appoggiato alla ringhiera a guardare la cascata.

Uno si sdraiò a guardare la cupola di vetro, oltre al quale si potevano vedere le stelle, e poi biascicò: «Sud Africa».

«E tu, Tre? Di dov'è tuo zio?»

Strinsi i pugni e feci un respiro profondo, cercando di bloccare nuovamente la voglia di rivelare il piano di fuga. Odiavo mentire ai miei fratelli ma lo stavo facendo anche per loro: «Italia. Mio zio è un membro della mafia» risposi, mordendomi l'interno della guancia.

«Ah! Pizza, pasta e mandolino!» scherzò Diciotto.

«Ti prego facciamo a cambio Tre! L'Italia è il paese della pizza. E' il mio piccolo paradiso privato!» frignò Diciassette.

«Non penso sia possibile» gli sorrisi di rimando.

«Sono l'unico che rimarrà in Cina a quanto pare» concluse Dodici: «Il mio caro zietto è un pezzo grosso della triade. Spero solo di poter vivere in città. Sono leggermente stufo di vedere neve, alberi, animali, neve, montagna, neve» e si sdraiò sul pavimento, con lo sguardo perso a fissare il vetro e, oltre a quello, le stelle.

«Chi sa. Magari ci permettono di incontrarci qualche volta, Dodici» continuò Diciotto, con tono divertito.

«Ne dubito fortemente. Una volta che entreremo a far parte della nuova famiglia, finiremo per dimenticarci degli uni e degli altri. Diventeremo delle macchine assassine. L'unica cosa a cui dovremmo pensare sarà quella di uccidere» concluse Dodici.

In quel momento calò un profondo silenzio, tutti a pensare alla loro futura famiglia e alla vita che ci aspettava una volta usciti di lì.

No. Mi rifiutavo di diventare ciò per cui ero stata creata. Non avrei mai ucciso nessuno e non sarei mai diventata un'assassina.

Ormai le nocche mi erano diventate bianche per quando forte stringevo i pugni.

La mano di Uno mi colpì delicatamente il fianco. Mi girai per guardarlo e lui sussurrò, in modo che solo io sentissi: «Stanotte, solito posto, stessa ora».

Risposi con un lieve cenno della testa. Tra due giorni avremmo lasciato il centro. Era ora di mettere appunto gli ultimi dettagli della nostra fuga.

π - La diversità sfugge al controllo -Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora