Capitolo Uno

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24 anni dopo

«3.14P! Vai con l'ultimo!» Il professor Johnson si mise al mio fianco per controllare che facessi tutto in maniera corretta. Ma entrambi sapevamo che non ce n'era alcun bisogno. Probabilmente ero il miglior cecchino che avesse mai addestrato.
Mi misi comoda, sdraiata sul soffice manto bianco e gelido creato dalla nevicata fresca di quella notte. Mi sporsi ad abbracciare il mio fucile di precisione. Abbassai lo sguardo all'altezza del mirino e chiusi l'occhio sinistro. Non avevo bisogno dello Sniper. La nostra vista super sviluppata ci permetteva di osservare il bersaglio posto a quattro chilometri e mezzo di distanza come se fosse a soli poche centinaia di metri. Respirai a fondo.

BANG! Centro.

«Va bene ragazzi, andate a darvi una ripulita, noi ci rivediamo alla prossima lezione»A quanto pare il professore aveva fretta di finire l'addestramento quel giorno.

«Arrivederci professore! Tre! Noi ti aspettiamo giù!» i miei fratelli si lanciarono alla carica verso la porta per tornare al caldo il prima possibile.

«Si! Ci vediamo più tardi!»

Rimasi sola con il professore: « Quasi mi dispiace che tu debba andartene. Chi chiamerò per le prossime dimostrazioni?» mi chiese divertito.

«Così mi lusinga professor Johnson». Finalmente potevo alzarmi da quella posizione scomoda. Quasi non mi sentivo più le mani dal freddo. Ci trovavamo sul tetto del centro scientifico, costruito sul monte asiatico Cho Oyu, a circa 7.000 chilometri di altezza. Lontani da quelli che io e i miei fratelli definivamo "i Normali".
Se si tralasciavano le deboli voci dei miei fratelli, che ormai erano rientrati all'interno dell'edificio, intorno a noi c'erano solo alberi, montagne, neve e silenzio.

«Tua madre ti ha già presentato lo zio che è riuscito ad aggiudicarti? O almeno in quale parte del mondo ti dovrai trasferire?».

«Non ancora. Oggi pomeriggio ho una riunione con la dottoressa Morozova e l'equipe per fare gli ultimi controlli».

«Ho capito. Beh allora, buona fortuna e fatti valere. Addio, Pi greco» Spalancai gli occhi. Il professor Johnson mi salutò con un cenno della testa e se ne andò, lasciandomi lì, da sola. Era la prima volta che usava il soprannome affibbiatomi dal mio fratellino. Come poteva conoscerlo? Era da tanto che non venivo più chiamata così.

Lo guardai andarsene fino a quando non aprì la porta di servizio e scomparì all'interno dell'edificio. Potevo ancora vedere il calore che irradiava il suo corpo mentre camminava lungo il corridoio. Era un uomo di poche parole, il professore. Un uomo che dimostrava più anni di quelli che aveva in realtà. Alto, capelli e occhi scuri. Era una persona dai tratti poco distintivi, eccezion fatta per quella cicatrice che gli attraversava metà volto. Era probabilmente il miglior cecchino che il mondo avesse mai visto. Aveva preso parte a varie spedizioni in Afghanistan e in Libia, ma poi aveva dovuto dimettersi a causa di un incidente: durante un sopralluogo per decidere il posto migliore dove disporsi, il plotone non si accorse di una bomba installata poco prima. Quando esplose il professore era il soldato più vicino. Gli dovettero ricostruire metà volto e perse un occhio. Fu la fine della sua carriera.

Mi inginocchiai e cominciai a smontare il mio amato Heckler Koch HK417, riponendo i vari pezzi nella custodia. Quella sarebbe stata l'ultima volta che avrei toccato il mio fucile.

Ricordo come se fosse ieri la prima lezione con le armi da fuoco, al mio ottavo compleanno. Ero così eccitata. Dopo giorni passati a scuola ad imparare cose che gli insegnanti ritenevano "essenziali" per il nostro futuro, finalmente potevo cimentarmi in qualcosa di più potente di me, o almeno, era quello che credevo all'inizio. Tra tutte le armi che avevo imparato a utilizzare, preferivo di gran lunga il fucile di precisione. Sarà stato per la grande distanza dal bersaglio, ma quando sparavo con quel fucile, mi sentivo meno "mostro" rispetto a quando utilizzavo le altre armi o quando mi esercitavo con le mie "abilità". Mi sarebbero mancati il professor Johnson e quel fucile.

Passai il resto della mattinata nella mia camera a finire di impacchettare le mie cose e a preparare lo zaino. Ormai avevo terminato tutte le lezioni. Non c'era altro che i professori potessero insegnarmi. Tutte le nozioni che i Normali studiavano alle superiori e all'università, noi le imparavamo dai quattro fino ai vent'anni circa. Durante il pomeriggio eravamo costretti a seguire delle lezioni di bon ton, di ballo, di musica e di informatica. Non per nulla nascevamo con un quoziente intellettivo più alto della media.
Dovevamo imparare ad affrontare qualsiasi tipo di situazione.

I miei pensieri furono interrotti dal rumore di alcuni passi nel corridoio. Erano leggeri e non avevano un ritmo: chiaro segnale che qualcuno era teso. Dopo circa ventisette secondi cominciai a vedere il calore irradiato dal corpo, oltre alla parete della mia stanza. La sagoma era molto esile: probabilmente una donna. La figura si fermò per un paio di secondi di fronte alla porta della camera da letto dirimpettaia alla mia. Sentii il battito del suo cuore accelerare, i suoi respiri farsi più brevi e rapidi, i denti battere a una velocità che, onestamente, non pensavo un normale potesse fare.

Sorrisi. Altro che tesa. Questa se la stava per fare sotto!

Quando sembrava avesse recuperato un briciolo di controllo, bussò alla porta di mio fratello. Sentii la porta aprirsi e vidi una figura più corpulenta affacciarsi alla porta.

«1.18P... ehm, tua madre t-ti sta aspettando in laboratorio» la voce dell'infermiera mi raggiunse forte e chiara.

Non ricevette nessuna risposta ma sentii dei passi più pesanti uscire insieme a lei dalla stanza. Non mi stupiva. Mio fratello era sempre stato uno di poche parole.

Subito dopo aver richiuso la porta l'infermiera ricominciò a camminare per poi fermarsi davanti alla mia stanza e fare un bel respiro. Non le lasciai in tempo di trovare il suo "pseudo-auto-controllo" e poi bussare. Spalancai la porta, tanto per sottolineare il fatto che avevo avvertito da un pezzo la sua presenza. Appoggiai la testa sullo stipite e la scrutai con sguardo annoiato. Se prima era in ansia, ora stava per avere un attacco di panico.

«3.14P, o-oggi alle tre hai il controllo c-con l'equipe, v-vedi di arrivare in orario, a t-tua madre non piacciono i ritardatari» Nonostante avesse cercato in tutti i modi di mantenere un tono più fermo possibile, aveva rischiato di strozzarsi con la sua stessa saliva. Non riuscii a bloccare il ghigno.

Lavoravano per il centro ormai da vent'anni ma la maggior parte dei dipendenti morivano di paura quando dovevano vedersela da soli con noi ragazzi.

«Sarò puntuale» e la congedai con un cenno della testa che la invitava caldamente a togliersi dai piedi.
La guardai andarsene, quasi inciampando sui suoi piedi, e solo quando mi fui accertata che non ci fosse nessuno in quell'ala del centro, richiusi la porta alle mie spalle.

π - La diversità sfugge al controllo -Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora