Quel giorno non pranzai.
Aspettai che arrivassero le 14:15 e mi incamminai per raggiungere il laboratorio dove avrei sostenuto gli ultimi esami e test fisici.
Il centro era diviso in quattro blocchi: Nord, Sud, Est e Ovest. Nel blocco Nord era ubicato il dormitorio di ventuno piani: il numero di ogni piano coincideva con il gruppo dell'esperimento che vi risiedeva, ad eccezione dell'ultimo piano, destinato ai fratelli P. Una volta che un nostro fratello o una nostra sorella raggiungeva il livello ottimale veniva trasferito all'ultimo piano, mentre i fratelli del loro stesso gruppo venivano portati in un laboratorio distaccato dalla sede centrale, in modo da poter essere curati dagli eventuali errori nella loro genetica. Dal momento che si aveva il corretto codice genetico per ottenere abilità soprannaturali, gli scienziati potevano "curare" i fratelli difettosi per poi riportarli al centro. O almeno era quello che ci propinavano i dipendenti ogni qualvolta un nostro fratello entrava a far parte del gruppo P.
Salii nell'ascensore e premetti il tasto 0 che mi avrebbe portato al piano terra. Quell'ascensore aveva accesso solamente ai dormitori. Inconsciamente mi ritrovai a sfiorare il numero 3, il mio vecchio piano. Ora ci vivevano i fratelli del gruppo ventitré. Quando un piano si liberava, gli scienziati e la dottoressa Morozova cominciavano a mettere appunto un nuovo codice genetico, un nuovo esperimento, un nuovo fratello.
Una volta raggiunto il piano terra, mi diressi verso il Planetarium. Era così che lo chiamavamo io e i miei fratelli. Era il blocco centrale del centro: un immenso giardino circolare esteso per cinque piani; una grandissima cupola di vetro faceva da soffitto con un'apertura al centro che lasciava posto a un'altissima cascata. Era il punto di incontro di noi fratelli. Eravamo soliti salire fino all'ultimo piano del Planetarium per stenderci negli sdrai di legno e guardare verso la teca di vetro, dove era possibile vedere le costellazioni e, qualche volta, delle stelle cadenti. Ricordo di aver passato lì le notti insonni, con 15 al mio fianco che mi tranquillizzava. Erano le notti che precedevano le esaminazioni.
Mi mancavano quei momenti.Superai la cascata e mi diressi verso il blocco Sud. I laboratori di ricerca si trovavano nella parte opposta ai dormitori, così come l'ufficio e l'alloggio della dottoressa Morozova.
Alla mia destra si trovava l'ingresso per il blocco Est. Lì erano state costruite la mensa, la biblioteca e le aule. Era come una sorta di "scuola" dove il mattino e il pomeriggio eravamo obbligati a seguire le lezioni. Non appena compivamo quattro anni cominciavamo a frequentarle. A dieci anni potevamo competere con un Normale a livello universitario. Il nostro cervello ipersviluppato ci permetteva di fare calcoli e ragionamenti di quantità e velocità notevoli.
Il blocco Ovest era invece riservato alla palestra, alla piscina, alle aule di allenamento e alle varie sale costruite appositamente per esercitarci sulle nostre abilità. Sul tetto di quel blocco ci esercitavamo al tiro al bersaglio con il professor Johnson.
Raggiunsi l'ascensore del Blocco Sud e premetti il tasto 4 che portava al piano dove sarei stata osservata dall'equipe. I primi tre piani erano riservati al dormitorio dei dipendenti e non c'era permesso andarci. La camera della dottoressa Irina si trovava, invece, all'ultimo piano, dove non poteva essere disturbata.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono, svoltai a destra e percorsi un lungo corridoio bianco. Arrivai davanti alla grande porta bianca con scritto "Laboratorio 3". Guardai l'ora. Erano le 14.27. Ero in anticipo. Meglio così. Come mi aveva giustamente ricordato l'infermiera quella mattina, alla dottoressa Morozova non piacevano i ritardatari. Bussai e aspettai che qualcuno mi venisse ad aprire.
Quando si aprì la porta di fronte a me trovai il dottor Lefebvre che mi invitò ad entrare con il suo forte accento francese: «Entra pure».
«Buongiorno» Entrai e mi portai a un lato della stanza. Il laboratorio brulicava di persone, diciassette per l'esattezza tra cui medici, infermieri, tecnici ed esaminatori. C'erano anche otto guardie con la pistola in mano e gli occhi fissi su di me, attenti a captare ogni mio minimo movimento. Ancora non capivo la necessità delle guardie. Di certo non ce n'era bisogno. C'era ben altro che ci fermava dalla voglia di ribellarci.
«Tua madre sarà qui a momenti».
«D'accordo, grazie» Cominciai a guardarmi intorno. In quel laboratorio avevo passato la maggior parte della mia vita, soprattutto i primi dieci anni, quando gli scienziati dovevano calcolare ogni minimo cambiamento del mio codice genetico e del mio corpo. Era un laboratorio molto spazioso con grandi schermi appesi sulle pareti dove era possibile leggere tutte le informazioni che mi riguardavano. Delle scrivanie erano state sistemate lungo le pareti, riempite da computer, libri, microscopi e chissà cos'altro. Lunghe braccia robotizzate si estendevano dal soffitto. Una pedana ovale posta in mezzo alla stanza faceva fluttuare un piano di ferro, simile ad un lettino. La stanza era completamente bianca: pareti bianche, tavoli bianchi, schermi bianchi e tanta, troppa luce. Bianca.
«D'accordo allora. Finito gli esami di 3.14P torneremo nel mio ufficio a sistemare le ultime cose». Il mio udito ipersviluppato anticipò di qualche minuto l'arrivo della dottoressa e quelli che sarebbero diventati i miei nuovi capi. Da quello che potevo capire dalle voci e dai rumori di passi, erano cinque persone e stavano parlando italiano.
Quando la porta si aprì, nella stanza entrarono quattro uomini accompagnati da Irina.
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π - La diversità sfugge al controllo -
Paranormal3.14 è nata e cresciuta al riparo dagli sguardi del mondo: fin dalla nascita ha vissuto in un centro scientifico. All'interno di questo centro, costruito sulla montagna Cho Oyu, in Cina, non è sola. Vive sotto il controllo della direttrice, una dott...