Giorno dopo giorno, ora dopo ora, seduta al suo capezzale, aspettavo.
Quel posto era un inferno. Il piccolo girone personale di ognuno di noi. Di ogni paziente, parente, persona in attesa. Le notti rincorrevano i giorni, fondendosi e perdendo di significato. Non esistevano più momenti giusti per il sonno né giusti per la veglia. Ogni attimo sembrava la copia del precedente e di quello successivo.
La mia intera esistenza sembrava ormai confinata in quelle quattro, strette, mura di ospedale.
Dormivo al suo capezzale, mangiavo al suo capezzale, mi assentavo giusto il tempo di lavarmi o di andare in bagno; altrimenti ero lì, accanto a lui.
Non lo lasciavo. Nemmeno un istante.
I medici che venivano a controllarlo quotidianamente mi avevano più e più volte sollecitato a tornare a casa, a venire soltanto nell'orario di apertura alle visite, a riposarmi.
Mi ero sempre rifiutata.
Sono testarda, lo so. Ma non potevo permettere che si svegliasse in quella stanza tutto solo, dolorante, magari spaesato.
Avevo rischiato di perderlo una volta ed era più che sufficiente.
Solo che il tempo scorreva e l'attesa era una agonia.
Non si sapeva quando si sarebbe svegliato. I medici avevano sospeso il ciclo di medicinali per tenerlo sedato, gli avevano anche tolto il tubo per respirare e ora lo faceva autonomamente. Piccoli ma grandi passi. Sembrava sempre in procinto di svegliarsi, eppure non lo faceva mai.
Bisognava aspettare, aver pazienza e fede, mi ripetevano continuamente.
E io aspettavo.
Avevo pazienza.
Avevo fede.
La cappella dell'ospedale mi aveva visto più volte della piccola mensa. Ogni tanto ci passavo qualche minuto, raccolta in preghiera. E pregare non ha mai fatto per me, eppure, in una occasione così, avevo messo da parte anche la mia scrupolosa diffidenza verso i piani alti.
Tra me e Dio c'era sempre stato un tacito accordo di mutua sopportazione. Io non infastidivo lui, lui non pretendeva troppo da me. Questa volta però avevo bisogno anche della sua mano divina.
E così tra un pranzo mandato giù di fretta, una preghiera, un sonno inquieto, il tempo passava. E se la mia mente restava in silenziosa attesa, il mio cuore sembrava non volerne sapere.
Devo solo aspettare! Ancora un po'... solo un po'.
All'ottavo giorno, una infermiera, impietosita, mi aveva concesso di dormire nel letto vuoto accanto a quello di Lattner con la promessa di sgombrarlo non appena fosse servito nuovamente. Avevo ringraziato e declinato l'offerta. La poltrona mi sembrava già fin troppo lontana da lui.
Volevo essere lì, vicina, pronta, sul pezzo.
La mia schiena non ringraziava di certo.
Non so com'ero riuscita ad addormentarmi quel giorno: incastrata su quella poltroncina scomoda, con la testa sul materasso nascosta da braccia e capelli. Probabilmente la stanchezza mi aveva dato il colpo finale.
Stavo sognando di aver rubato Pegaso a Hercules ed essermi andata a far un giro in volo con Takeru su tutto il Missan, con lui che si teneva aggrappato a me e contemporaneamente vomitava sui nostri professori. C'era qualcosa di mistico in quel sogno, oltre che comico.
Stavamo per scendere in picchiata, pronti a lanciarci sulla Wood, quando qualcosa di fastidioso iniziò a picchiettarmi con insistenza sul naso. Lo scacciai con la mano cercando di restare aggrappata al mio sogno che però si infranse come una bolla; un attimo dopo i miei occhi, ancora carichi di sonno, si ritrovarono a fissare un dito. «Cosa...» mi pulii la bocca da possibili residui di bava e stropicciai il viso. Tutto avrei pensato, meno che essere svegliata da quello che teoricamente stavo aspettando si svegliasse.
STAI LEGGENDO
Problema Pericoloso - Joker (vol.3)
Roman d'amourIl passato di Lattner è tornato a far capolino nelle loro vite, lasciando dietro di sé un cumulo di macerie, sofferenza e cicatrici. L'incontro con George Wyer li ha cambiati, svuotati e ha messo a nudo verità scomode. Ricominciare è difficile, sop...