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Ricordo con amarezza il momento in cui la mia malattia ha imposto la sua presenza. Avevo diciott'anni, stavo entrando a scuola e sul primo gradino della scalinata il mio ginocchio cedette. Ero rimasta per poche ore in ospedale, mi avevano fasciato la gamba e rimandata a casa. Le stampelle non erano comprese e mia madre chiamò al telefono tutti i conoscenti per chiederne in prestito un paio. Sembrava fosse una questione di vita o di morte, era agitata come mai prima, alla fine dovette comprarle lei e io mi sentii così in colpa da chiedere di pagarle con i miei risparmi. Era iniziata la mia vita vera, senza corse, salti, passeggiate.

Continuai ad andare a scuola, senza capire cosa mi stesse succedendo, perché non guarivo mai. Aspettavo di tornare a casa per potermi sdraiare sul divano e sentirmi normale, più stavo in piedi e più la disperazione mi assaliva. Mi sentivo spossata e la gamba perdeva tonicità, spesso dei crampi logoranti la avvolgevano facendomi saltare sul letto nel pieno della notte. Le grida non bastavano a fermarli, iniziai a convivere con loro e con il pianto impotente di mia madre in sottofondo.

Michele era nella mia classe e si accorse presto che avevo la gamba fasciata da troppo tempo e che spesso saltavo le lezioni. Quando mi sentivo abbastanza bene da andare a scuola mi aiutava ad arrivare all'autobus e non mi lasciava mai sola a ricreazione. Ma quando mancavano un paio di mesi al diploma non poté più farmi compagnia sulla panchina del cortile, si era paralizzata anche l'altra gamba.

Una vita a granelliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora