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Sentivo solo odore di pioggia, come nelle giornate di fine estate, quel giorno. Il cielo aveva delle sfumature grigiastre, con qualche schiarita verso ovest; il sole era pallido e nascosto dalle nuvole. Era un giorno diverso, con quel silenzio quasi impercettibile che attraversava l'aria. Su quel muretto fatto di mattoni e dipinto di giallo, potevo ascoltare il fischio del vento e farmi cullare da esso. Chiudevo gli occhi, di tanto in tanto, come se fosse stato un sogno. Come se fosse stata una cantilena che mi faceva addormentare dolcemente. Per la prima volta mi sentivo me stessa: non dovevo pensare a nient'altro che alla delicatezza del vento. Iniziò a piovere, non che mi interessasse più di tanto, ma, vista la mia nuova protesi alla gamba destra, dovevo rientrare. E subito. Non potevo arrivarci in macchina, qui; in bici nemmeno. Almeno, con una gamba mezza andata, ne dubitavo fortemente. Le uniche due soluzioni erano andare a piedi oppure prendere un taxi. Di taxi non si vedeva l'ombra... restava l'altra opzione. Non avevo neanche l'ombrello! Sarei dovuta arrivare fino al benzinaio o a un bar vicino per ripararmi. Stavo giusto iniziando ad alzarmi dal muretto quando un'automobile accostò vicino ai miei piedi. Lo sconosciuto scese dal veicolo e mi scrutò.
–Ciao, ti serve una mano?– mi chiese il ragazzo gentilmente –Ehm, dovrei andare a casa con questa pioggia... si, grazie– risposi. Lo sconosciuto si avvicinò e si sedette anche lui sul muretto; mi sorrise. Aveva un'aria familiare... possibile?
–Ti ricordi di me?– mi guardò dolcemente e poi mi aiutò a scendere dal muretto di mattoni prendendomi per la vita –No, però hai un'aria familiare– ero un po' imbarazzata. Poi, come per magia, il suo nome mi saltò alla mente –Josh?– chiedevo per avere la conferma –Esatto! Allora ti ricordi di me!– aveva esclamato con gioia. Il punto era che non mi ricordavo chi fosse, sapevo solo il suo nome. –Aspetta. Io non so chi tu sia. Io so il tuo nome... è un po' come se lo sapessi già, capisci?– non sapevo se averlo già visto oppure no. Sembrava confuso per la mia confessione –Oh. Beh io mi ricordo di te, anzi, dal momento che ti ho vista la prima volta, non ti ho più tolto dalla mente.– Ok. Ero decisamente più confusa di lui. Come sarebbe stato a dire? Lui mi conosceva. Io non l'avevo mai visto prima d'ora; o si? Cosa significava che "non mi ha più tolta dalla mente"? Ero disorientata. Ero come una preda in fuga che cercava di capire cosa stesse succedendo.
Perché sapevo il suo nome? Chi era lui?
Lo sbattere della portiera mi riportò alla realtà. Il vento l'aveva spinta contro; strano, il vento era cessato. Ero in macchina, Josh aveva chiuso la portiera: non era stato il vento. Ero troppo incasinata mentalmente per capire anche solo cosa stesse accadendo. Josh aveva messo in moto la Mercedes per poi fare manovra e partire. Non mi aveva chiesto l'indirizzo; che lo sapesse già?
–Sai dove abito?– sembrava sospetta la cosa –Ah, giusto. Dove abiti?– era talmente vivace che volevo conoscerlo. Non volevo andare a casa. Volevo che quel giorno fosse diverso; perché era diverso. –E tu lo sai?– con tutte le domande che potevo fare scelsi proprio una domanda senza un soggetto preciso.
–E io so cosa?– mi fece eco lui. –Il mio nome. Sai il mio nome?– gli chiesi guardandolo. Aspettò un po' a rispondere –Adele. Il tuo nome è Adele–. Allora davvero mi conosceva; forse avevo fatto una faccia strana perché lui rise –Tranquilla. Poi ti racconto tutto. Allora dov'è che abiti?– arrossii come un'ebete.
–Non voglio andare a casa– arrossii di nuovo –Oh. Dove vuoi andare?– sembrava sorpreso –Dove vuoi, ma non voglio tornare a casa per ora– era fatta ormai. Cercava di nasconderlo, ma aveva l'aria compiaciuta –Beh, se vuoi ti porto nel mio posto preferito– non mi restava altro che accettare –D'accordo–.
Josh, a prima impressione, mi sembrava un ragazzo carino, anzi bello, con quegli occhi grigi che a seconda del tempo cambiavano sfumatura. Aveva le labbra non troppo carnose, il naso diritto proprio come il mio, corporatura muscolosa e i capelli castani e ricci. Era una strana combinazione di persona. Mi sembrava di vedere l'intensità, la gentilezza e la passione in lui. Non era uguale agli altri: era Josh.
–Siamo arrivati– dichiarò Josh fissandomi; anche io lo stavo guardando. Sentivo il profumo del cocco e l'aroma della vaniglia provenire dal suo essere; mi faceva girare la testa il suo odore. Eravamo sempre più vicini, finché le nostre labbra si sfiorarono. Lui mi cingeva la vita con la mano sinistra e con la destra mi carezzava i capelli. A un dito dalla mia bocca, mi disse –Sei stupenda– e io bloccai il suo respiro col mio.
A ventitré anni, baciai il primo ragazzo con passione. Mi trasportava in un mondo parallelo, dove ogni cosa è bella, dove anche il più insignificante insetto può sembrare una farfalla. Le sue labbra erano morbide e succose, come mordere il frutto della passione ed esplodere. Mi sentivo così, in quell'attimo: un misto di esplosione e passione.
Wow. Assolutamente strano. E bello. Strano e bello. Ero così intontita da quel bacio da avere mal di testa.
–Stai bene?– domandava preoccupato Josh, scrutandomi. Sembravo come in astinenza, perché non volevo togliere le labbra dalle sue; ne volevo ancora, di baci. Josh scese dalla macchina mentre apriva con un bottone la mia portiera. Stavo scendendo dall'auto, quando lui mi prese in braccio; ridemmo all'unisono. Mi stava facendo roteare e non so con che forza data la mia gamba destra.
Dopo il lungo girotondo, mi poggiò delicatamente a terra e rivolse la mia testa davanti a quella che si poteva dire la casa più bella del mondo. La facciata era dipinta di bianco con dei fiori azzurri. Aveva due balconcini rispecchianti la Francia, con la ringhiera blu e vasi pieni di fiori. Si poteva sentire l'odore di rose, margherite e gelsomino; anche di pioggia. Era spuntato il sole, ma qualche nuvola c'era ancora. La casa era invasa dai rampicanti. L'entrata era perfettamente allineata con la siepe che faceva da corridoio naturale. Stavamo camminando abbracciati l'uno all'altro; osservavo le piante, le foglie, i boccioli non ancora fioriti sopra di me. Era tutto meraviglioso, lì. Josh aprì la porta ed entrammo. La parte esterna della casa era bella, ma quella interna ancora di più. Guardavo tutto, meravigliata: delle scale a chiocciola di marmo bianco vicino all'ingresso portavano al piano superiore. C'era un ampio open space al piano terra; un tavolo grande di legno occupava la sala. I muri bianchi erano decorati con delle foglioline dipinte d'argento e d'oro. Un piccolo divanetto e una poltrona di colore beige erano posizionati davanti al caminetto. Ma la cosa che più mi entusiasmava, era il pianoforte a coda bianco vicino al divanetto.
–Suoni?– domandai estasiata.
–Cosa vuoi che ti intoni?– mi rispose. Volevo che scegliesse lui; quindi dissi solamente –Stupiscimi–. Si sedette e iniziò a suonare: stava improvvisando. Non avevo mai sentito una melodia simile. Chiusi gli occhi; sentivo le onde del mare scorrermi nelle ossa. Eravamo in una magia, anzi in una favola. Poi si mise a cantare. Riaprii subito gli occhi; piangeva. A occhi chiusi suonava e cantava una specie di ninna nanna. Aveva la voce bassa e pulita, bella.

Sei come il mio respiro, indispensabile
Come il mio destino, inaccettabile
Come un viaggio all'estero
Che non sai dove vai
O forse lo sai
Stai venendo da me

Non avere paura
Mi prenderò cura,
Fidati di me
Perché io sono per te
E tu sei per me.

Stavo piangendo anche io. Forse perché mi ricordava la mia famiglia. Mi ricordava quell'orrendo giorno...
La poesia cantata era finita, anche se continuavo a pensarla...
Restammo in silenzio per un bel po'; poi sciolsi il ghiaccio –L'hai scritta tu?–. Aveva ancora il segno delle lacrime che gli rigava la faccia. –No. Mia madre me la cantava sempre, da bambino.– esitò –Non suono da quando lei se ne è andata.– finì la frase con la voce spezzata. Oh. Oh no, io non ero brava in queste cose. Decisi quindi di massaggiargli le spalle con le mie dita affusolate. Non dissi nulla; a volte il silenzio è meglio delle parole.
In un attimo tornò in sé, come se nulla fosse capitato –Allora, ti racconto come ci siamo incontrati, o meglio scontrati.– Cercò di ridere senza successo, –Eravamo bambini, quando accadde. Tu eri appena entrata con tua madre in una gelateria, volevi un gelato a tutti i costi;– a quel punto risi io –entrai anche io con mia madre e mia sorella. Presi il gelato al cioccolato e tu alla panna, ma, per qualche motivo strano, la gelataia si confuse e scambiò i nostri gelati.– All'improvviso ricordai tutto e continuai –Così io io mi misi a piangere e... ti buttai il gelato dritto in testa!– stavo ormai piangendo dal ridere –Non sai come mi dispiace!– anche lui ormai non si tratteneva più.
Non avevo più fiato in corpo, tanto ridevo. Quando smettemmo finalmente di ridere, dissi –Mi ha fatto piacere rivederti senza doverti buttare il gelato sulla fronte–, anche lui era felice perché rispose –E io sono contento di averti parlato, finalmente–.
Ormai le nuvole se ne erano andate, il sole stava tramontando. Lo vedevo dalla grande finestra che dava sul giardino; e che giardino. Era come un parco: pieno di piante, fiori e stradine.
–Laggiù c'è una piscina...– mi comunicò Josh. Cosa? Una piscina? Stava scherzando, vero? Non sapeva che io fossi... senza una gamba? Che non potevo entrare in acqua con la protesi? No. No. No. Non doveva saperlo, almeno non in quel momento. Forse dopo; o mai. Improvvisai –Non so nuotare,– feci un respiro profondo –ho paura–. Forse era dispiaciuto, –Ti insegno io, se vuoi– disse in tono incoraggiante. Perché i ragazzi insistono sempre? Mi sono sempre fatta questa domanda. Non ho mai ricevuto una risposta. Forse doveva solo vedere... così sarebbe scappato a gambe filate da me. Decisi che era la decisione migliore, davvero. –D'accordo,– scherzai –aspettami in piscina–. Pareva interessato alla mia proposta, aveva un sorrisetto compiaciuto. Non sapeva ciò che gli aspettava. Un mostro. Una mutante. Una disabile. Non poteva vedermi più allo stesso modo. Ormai il dado era tratto.
La piscina non era molto lontana dalla villa, si intravedeva negli alberi. Josh si era incamminato verso il vialetto e io mettevo un costume che lui aveva posto sul divanetto beige. Avevo addosso un accappatoio bianco di spugna morbida; zoppicai fino alla piscina. Era giunto il tramonto, finalmente: l'ho sempre adorato. Eccomi alla piscina; lui era seduto sul bordo, a fissare l'acqua. Feci più silenzio possibile, ma lui si accorse di me, –Hey!– beh come potevo fare assoluto silenzio con una gamba che quasi strisciava? –Eccomi,– la mia voce non aveva tonalità –pronto per la sorpresa?–. Non aspettai nemmeno la risposta che tolsi l'accappatoio.
Josh non disse nulla. Assolutamente nulla. Il vuoto cresceva dentro di me. Il mio cuore non faceva spazio alla tristezza, solo alla delusione. Che illusa che ero. E poi parlò. –Forse non lo sai, ma uno dei tanti motivi per cui mi attrai è la tua gamba,– si girò leggermente –guardami–; lo scrutai bene. Mi avvicinai a lui: anche lui... anche Josh non aveva una gamba. Gli mancava quella sinistra. Non mi ero accorta. Camminava così spontaneamente ed elegantemente che pensavo fosse... insomma normale. La sua protesi era dall'altra parte della piscina. Mi sedetti sul bordo di fianco a lui; staccai piano la mia gamba artificiale. Faceva ancora un po' male, non ero abituata ancora a quella nuova. Josh tese le mani e mi aiutò a toglierla. Gemetti, ma alla fine c'eravamo riusciti; –Grazie– gli dissi. Mi buttai in acqua e gli sorrisi; anche lui si immerse. Essa era fredda e morbida, sapeva di cloro ed era pulita. Bagnai i capelli a Josh e lui mi abbracciò. Restammo in ammollo in quella posizione per non so quanto tempo; dieci secondi, dieci giorni, dieci anni. Con lui mi sentivo al sicuro, con Josh mi sentivo a casa. Sentivo addosso il suo corpo caldo, il suo dolce respiro, il suo sguardo. Avevo la testa chinata sulla sua forte spalla mentre lui mi carezzava dolcemente la schiena. Poi il resto fu un casino. Eravamo avvinghiati, uniti, legati l'uno all'altra. Sentivo salirmi su per la schiena una strana sensazione, mai provata prima d'allora. Josh mi prese le spalle e mi baciò. Non era un bacio lento e delicato come il precedente, ma una furia inferocita e appassionata che non mi staccava la labbra di dosso. E io non opponevo resistenza perché anch'io mi sentivo una furia. Ricambiai il bacio, dimenticai l'acqua e le gambe; eravamo solo io e lui.

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