Non sapevo cosa mi stesse girando per il cervello. So solo che gli diedi un ceffone dritto in faccia. Mi pentii all'istante. –Ahi!– esclamò Josh, –Perché l'hai fatto?– chiese confuso. Non lo sapevo nemmeno io. Non volevo fargli male... o forse sì. Che stronzo. Mi aveva ingannata e usata. Mi aveva trascinata nel suo casino e ora io stavo annegando. Avrei voluto picchiarlo più forte, ma mi trattenni. Cos'era poi quello strano sogno? Perché me lo aveva fatto vedere? Era strano... mi faceva male la testa, ora. Dovevo sgranchirmi le gambe; presi la protesi con uno sforzo e la pressi forte. Mi faceva male. Volevo concentrare il mio dolore sulla mia fottuta gamba per dimenticare ciò che stava accadendo. Le mie mani per lo sforzo e lo sfregio con l'acciaio iniziarono a sanguinare. Me ne fregai. Continuai a spingere. –Ehi! Così ti fai male! Adele!– Josh urlava alla vista del sangue, –Ti prego fermati– non aspettò la mia risposta che mi bloccò le braccia. –Lasciami.– lo dissi quasi con disprezzo, –Ho detto lasciami!– rafforzò la presa. Mi scansai da lui. Stava crescendo una rabbia innata dentro di me. Era tutta colpa di quello stupido sogno. Non potevo sapere cosa significasse realmente, ma per me poteva essere solo una cosa: magia.
Ho sempre pensato che la magia esistesse, dentro di me. Dovevo solo cercarla e trovarla; ora c'era. Era lì davanti a me, ma avevo paura. L'avrei cacciata via in questo stesso istante. Ero arrabbiata, confusa, pentita e preoccupata allo stesso tempo. Credo che non tutte le persone possano provare queste sensazioni nello stesso momento. Josh mi prese tra le braccia e mi sussurrò all'orecchio che andava tutto bene. Ma non era vero, non andava niente bene. Mi appoggiai a lui, sulla sua spalla, a piangere e singhiozzare come una bambina. Con la mano sinistra provavo a prenderlo a pugni, nel frattempo. Lui non diceva niente che potesse essere d'aiuto. Stava zitto e rigido come uno stecco. Forse era meglio così. Il silenzio a volte faceva da placatore. Mi calmai, dopo un po'. Sentivo la faccia avvampare, gli occhi gonfi e le labbra bagnate di sale e miele. –Io... – cercavo di dire qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non sentire ancora quel silenzio immobile. –Io non voglio che... tu stia male. Non voglio chiederti nemmeno scusa, perché non ti capisco. Non so cosa non va in me. Sento una miriade di cose che tu non ti immagineresti neanche. E non dirmi che va tutto bene perché, se c'è una cosa che davvero non va, sono io. Io non ce la faccio. Questa cosa è troppo per me. Ora ti posso chiedere scusa. Perdonami.– avevo di nuovo gli occhi lucidi e la mia voce si era spezzata alla fine. Lui era più o meno in uno stato di trance. Oh no. Non di nuovo. Gli afferrai la testa, lo guardai negli occhi grigi come le nuvole e vidi.
Ero di nuovo nella sua mente. Stavolta eravamo in uno posto diverso: in riva al mare. C'erano dei bambini che correvano verso di noi; a guardarli attentamente e da vicino non assomigliavano per nulla a dei marmocchi. Erano come dei mutanti. Essi avevano la forma di esseri umani di piccole dimensioni, per il resto nient'altro in comune. La pelle era di colore arancione pastello, al posto degli occhi vi stavano delle nuvole bianche. Volevo toccarle; sembrava zucchero filato. Qualcosa mi disse che era meglio evitare. I bambini mutanti avevano un profumo esilarante: sapevano di salsedine e liquirizia. Mi facevano starnutire, come quando accarezzavo un gatto. Mentre respiravano, emanavano una sostanza gassosa, come le bollicine della Coca Cola, di cui non conoscevo l'esistenza. Pensavo vivessero sui fondali marini, considerando gli abiti fradici e le alghe sulla testa, che fungevano da capelli. Un bambino mutante si avvicinò a me e mi sfiorò i polpastrelli con le sue dita palmate. Un dolore lancinante mi trapassò la mente, come se una pallottola mi fosse arrivata dritta sulla fronte. Caddi a terra, rotolai sulla sabbia per il bruciore. Aveva la potenza di cento meduse messe assieme. All'improvviso mi ripresi, guardai Josh rotolarsi come me per poi svenire. Corsi in suo aiuto. Quel mostriciattolo arancione aveva trattenuto la presa più a lungo sul polso. C'era un segno rosso, proprio come con le meduse. Urlava come un forsennato, sudava, ansimava, aveva spasmi. Non sapevo cosa fare. Lo trascinai in mare; bagnai il braccio infetto e vidi che pian piano tornava al suo normale colore. Come potevamo tornare nella realtà? Non c'erano una porta o una botola nascosta. E se avessimo dovuto nuotare? Forse l'uscita era sott'acqua. Dopotutto, da dove potevano provenire quelle strane creature? Mi immersi. Non vedevo niente, oltre a una patina opaca che offuscava la mia vista. Andai più giù e a largo; vedevo pesci e coralli. C'erano talmente tanti colori, da essere quasi inquietante. Era tutto bellissimo: sembrava un universo dentro un oceano. I miei occhi si erano ormai abituati all'acqua salata. Non volevo andarmene. Non mi veniva l'istinto di tornare in superficie per prendere fiato. Provai a fare un respiro: in acqua si poteva vivere. Perché? Doveva significare qualcos'altro. La chiave, come avevo sospettato, era in mare. Dovetti fare uno sforzo per voler tornare alla riva. Avevo lasciato Josh da solo. Nuotai insieme alle onde fino a raggiungere la sabbia asciutta. Josh era ancora incosciente, ma stava meglio. Lo chiamai più volte, finché non aprì gli occhi socchiudendoli leggermente per la luce abbagliante del sole. Probabilmente cercò di ripercorrere cosa era appena successo. Scrutò con diffidenza ciò che lo circondava. I mutanti se ne erano andati. Non avevano lasciato delle tracce, oltre all'inequivocabile odore. Quando finalmente si riprese, lo tirai su di forza, cercai di spiegargli cosa dovevamo fare e cosa ci avevano fatto. Ci volle un po' prima che afferrasse; ripetei il discorso più volte. Era scosso, traumatizzato ancora: piangeva. Le sue lacrime sgorgavano veloci ininterrottamente. Avevano il colore dell'oro puro. Con un dito, ne asciugai una: la appoggiai sulla punta della lingua. Aveva il sapore del sangue, ma caramellato. Quella strana sensazione ferrosa che saliva fino al naso era inconfondibile. Ogni cosa era sempre più strana. Gli tesi la mano e gli dissi che doveva stare tranquillo. Mano nella mano, entrammo in acqua. Brividi mi percossero: non mi ero accorta di quanto fosse realmente gelida. Josh aveva le labbra viola per il freddo. Con uno sforzo, immergemmo anche le nostre teste. Il sole stava tramontando, ormai: l'acqua avrebbe dovuto essere calda. Ovviamente questo mondo parallelo funzionava all'inverso. I colori marini si fecero più rossi e arancioni. I pesci iniziavano a farsi vedere, nuotavano tranquilli vicini a noi. Il fondale si faceva sempre più basso...Colori sgargianti e rossastri mi riempivano la vista. Il mare salato mi bruciava gli occhi e la gola. L'acqua fredda mi faceva sbattere i denti. La sensazione frustrante di stare chiuso in un cubicolo cresceva in me. Guardai lei con rispetto: non mi aveva abbandonato a me stesso. Avrei potuto soffrire per ore; avrei potuto vivere quei ricordi per giorni. Adesso avevo solo un'immagine sfocata di tutto ciò che mi era successo. Il respiro si faceva da sé. Non mi accorsi finché non tossii. Forse stare troppo sotto acqua faceva quell'effetto. Adele aveva detto che qui vicino c'era una via d'uscita. Una porta bianca, un passaggio con una chiave, sarebbe dovuta essere sul fondale e ci avrebbe riportato nel nostro vero mondo. Solo che di porte non ce n'erano. Nulla. Vuoto. Niente. Solo acqua e sabbia. E adesso? Cercavo di far capire a Adele ciò che volevo sapere. Con un segno delle sue sopracciglia, inarcate in un punto interrogativo, afferrai che nemmeno lei lo sapeva. Aveva visto quella porta dannazione. Perché ora era scomparsa? Un senso di panico, oltre a quello claustrofobico, si impadronì del mio essere. Iniziai a tossire sempre più forte finché caddi dal fondale. Non sapevo bene cosa aveva scatenato questa cosa. Forse avevamo trovato la via giusta. Ecco, eccola, l'uscita! Era un tunnel, perché era nero, vuoto, infinito. Stavo per esultare, visto che avevo trovato la porta, quando mi girai: lei non c'era.