Non pensai ad altro che a lei e a me. A noi due insieme, in quel momento perfetto. Ero in paradiso, forse? No, questo era meglio. Eravamo anime dannate: incatenate l'una all'altra e imprigionate dalla passione. Il suo corpo delicato era vicinissimo al mio tanto da scottarmi la pelle. La baciavo talmente forte che temevo le sarebbe rimasto il segno delle mie labbra. Forse era quello che volevo: che rimanesse un segno, il mio. Che rimanesse mia. Non era possibile, purtroppo.
–No,– mi staccai da lei –fermati– presi tra le mani il suo viso bello e la guardai. –Sei davvero sicura?– magari la stavo obbligando a fare qualcosa che non voleva; esitò e poi sussurrò al mio orecchio –No. Ma la sai una cosa? Non mi interessa–. Continuai a baciarla. Con le unghie, mi graffiava la schiena. Io le stringevo la testa e le scombussolavo i capelli spettinati. Ci spostammo nella zona d'acqua più alta e lei si immerse, bagnò i capelli e tornò in superficie. Da come mi guardava, capivo che volesse sfiorare fino all'infinito, per l'eternità, le mie labbra. Non so perché, ma mi diede un senso di privilegio. Sprofondai nell'acqua e iniziai a baciarla sul collo. Anche da lì, sentivo il suo cuore palpitare. Tornai in superficie. Aveva gli occhi socchiusi, il respiro affannato e la pelle d'oca. –Perché... ti sei fermato?– forse avevo paura per lei. –Non lo so– anche io avevo il respiro corto. Riuscivo a tenere il respiro per anche cinque minuti, quindi non era per la mancanza d'aria. Perché avevo paura per lei? Di cosa avevo paura? In fondo non era la prima volta che baciavo qualcuno, però era come se lo fosse stato. Non ce la facevo a continuare, era troppo presto. –Non posso, non ci riesco, io non...– Adele mi guardò attentamente e mi prese il volto, stringendomi forte. Non mi aveva lasciato il tempo di finire la frase che disse: –Smettila e baciami.– No. Non volevo –Ascoltami. Io non sono pronto per questo,– presi un respiro profondo –mi dispiace– e con questo smise di provare a baciarmi. Sembrava offesa, o meglio tradita; come se io non avessi voluto farlo con lei. Come se lei fosse stata l'errore, non io. Mi sentivo in colpa, confuso e stupido. Ma non potevo tornare indietro. Cercai di approcciarmi con lei, –Vorrei conoscerti davvero, Adele– le sorrisi –Parlami di te–. Mi guardava di sottecchi, come per capire se facessi sul serio oppure no. Si riprese e disse –Avevo otto anni quando mi amputarono la gamba. Stavamo tornando dal Luna Park; un ubriaco andava oltre il limite della velocità contromano. Mia madre e mia sorella morirono sul colpo. Io e mio padre fummo portati in ospedale immediatamente, nella zona di terapia intensiva. Dopo una settimana costretta a prendere medicinali, antibiotici, antidolorifici e cambiare le bende, mi dissero che anche mio padre era morto. Aveva subito gravi ferite, ustioni, danni cerebrali irreversibili. Cercarono di curargli le ferite superficiali, ma fu inutile. Decisero che era meglio morto che vivo.– non pianse né disse altro. Era solamente vuota, sola. Dimenticata, come mi sentivo anch'io. Non serviva dire che mi dispiaceva, perché era sottinteso. Non serviva consolarla né cercare di cambiare argomento. Non serviva niente; forse, solo il silenzio.
Era arrivato il mio turno. –All'età di 7 anni, mi fu diagnosticato un tumore alla gamba sinistra. Se non mi avessero operato subito, in meno di qualche mese sarei morto. Mi amputarono un arto. Feci mesi di fisioterapia. Dopo circa due anni me ne tornai a casa, a Edimburgo. Ero bianco quasi come il latte. Non vedevo il sole da mesi. Mia madre, dopo tutto ciò che avevamo passato, era caduta nella depressione. Mio padre era scappato di casa quando avevo 3 anni e mia madre si trovava sola in fondo a un abisso. Non ce la fece. La vidi prendere un coltello e...– singhiozzai – dopodiché non ci fu più niente da fare. Io e mia sorella venimmo affidati a nostro zio, un ubriacone violento. Un giorno scappammo da lui e ci portarono qui, a Londra, nel quartiere di Nottingham Hill: in casa di sconosciuti fino a quando avremmo raggiunto la maggiore età. Ed ora eccoci qua: ad osservare la notte capovolgersi su di noi e a parlare del nostro passato.– Saltai molte parti che mi parevano poco importanti, per esempio come ogni inverno io e mia sorella andassimo in giardino a fare pupazzi di neve. O come quando andavo dai miei nuovi amici londinesi e pensavo a quanto fosse ingiusta la mia vita. Oppure quando alla festa della mamma, ogni anno, l'unico regalo che potessi fare era piangere su delle vecchie foto. Una lacrima rigò la guancia di Adele e io gliela asciugai riempiendola di baci. Non doveva star male per me, ci aveva già pensato mia madre. Non avevo mai raccontato a nessuno il mio passato. Forse era diversa... o forse era perché mi fidavo di lei. Eravamo entrambi sul punto di non ritorno; di piangere fino all'indomani e di svegliarci con le occhiaie del pianto. Ma io non volevo che Adele piangesse, volevo che stesse bene. Iniziava a fare un po' freddo, mi accorsi guardai ancora la sua bocca viola. Io non mi rendevo conto, non pativo il freddo. –Usciamo, hai le labbra viola– le dissi gentilmente mentre sbatteva i denti per i brividi di freddo. La aiutai a sedersi sul bordo e le misi l'accappatoio. Mi coprii anch'io e la tenni stretta. Appoggiò il capo sulla mia spalla e io la mia testa sulla sua. Le presi la mano e la baciai, capii che si era addormentata. Afferrai con forza la mia finta gamba e con attenzione la incastrai sotto il ginocchio. Ogni volta che la toglievo o la rimettevo dava abbastanza fastidio; ma ormai non ci facevo più molto caso. Presi in braccio Adele e la portai fino alla villa; la protesi poteva aspettare.
Ero arrivato sui piedi della porta, quando la vidi: la mia ex. O un termine più adatto, il mio peggiore incubo. Aveva ancora la copia delle chiavi! Non si era degnata di buttarle o di riconsegnarmele. Era venuta proprio questo giorno; sarebbe potuta venire ieri o domani, ma no. Lei aveva un fiuto per queste cose. Capiva se c'era un'altra.
Merda.
Come avrei potuto fare allora? Con Adele in braccio e la mia ex seduta sul divano a guardarsi intorno. Non avevo altra scelta che entrare e affrontarla... e a quel punto mi avrebbe sepolto vivo. –Ciao Alexa– la salutai con un'enfasi talmente vivida da sembrare un idiota. –Non pensavo di trovarti– confessò lei, ma sapevamo tutti che non era vero. Questa sarebbe stata la mia casa, no? E poi non aveva visto la mia auto? O le finestre aperte? Certo che lo sapeva; eccome. –Non è forse casa mia, Alexa?– le chiesi sarcasticamente. –Chi è quella?– quasi urlò la mia ex indicando la più bella ragazza del mondo. –Non sei qui per sapere con chi sono. Vai dritta al punto.– La mia faccia era seria, almeno credo, e nella mia voce c'era un certo tono di irritazione e disprezzo. –Sono venuta per... insomma, per prendere la mia roba. Ah, e per ridarti queste– mi lanciò le chiavi, che mi finirono sulla mia testa –e... volevo dirti che mi dispiace. Sono stata una stupida. Ma tu dov'eri quando stavo male? Quando ti ho detto del bambino? Dov'eri quando lo partorii? Anche se ho sbagliato, se ti ho tradito, io ti amo ancora. E so che tu mi ami.– ovviamente me lo aspettavo. Il bambino non era nemmeno mio, ma di un cameriere di un ristorante in centro a Londra. Tutte le donne con cui sono stato mi dicevano la stessa cosa. Tutte mi tradivano e tutte volevano tornare insieme a me. Davvero mi amavano così come dicevano? O forse volevano tornare con me solo per il fatto che sono ricco? Sapevo già cosa rispondere –No. Io non ti amo. E non ti amerò mai più. Non ripeterò la stesso errore ancora una volta. E ora, se vuoi scusarmi, vorrei che tu te ne andassi immediatamente e che non tornassi. Grazie.– Congedata e ammaccata la povera Alexa! –Sei solo uno stronzo pieno di soldi, ecco cosa sei!– e con questo corse alla porta, vicino a me, mi scansò e se ne andò. –Bye bye ex– ridacchiò Adele. Non mi ero accorto che si fosse svegliata. Beh, ovviamente con tutto il fracasso che aveva fatto Alexa, non potevo certo darle torto. –Forse è meglio se dormi un po', non credi? Ti porto su.– le stampai un bacio sulla fronte. La portai nella mia camera da letto, la stesi e le rimboccai le coperte. Mi sedetti vicino a lei e le carezzai i capelli bagnati. –Vado a recuperare la tua gamba,–scherzai –torno subito–. Credevo non volesse che me ne andassi, ma dopotutto non ci avrei messo tanto. Corsi giù per le scale, quasi scivolai nell'andare, andai a recuperare quella protesi e tornai più in fretta possibile. Avevo il fiato corto e non ero svenuto! Miracolo! –Ecco!– ansimai in fretta. Adele si era addormentata, nel frattempo. Che bella che era: aveva la bocca semichiusa, la frangetta era umida e spettinata ed era girata su un fianco. Appoggiai la gamba finta di Adele a un puff e mi sdraiai accanto a lei. Appoggiai la mia mano sulla sua e mi lasciai cullare dalla notte.
Eravamo io e lei sulla spiaggia che correvamo mano nella mano, la buttavo in mare e Adele mi trascinava sott'acqua. Il mare era cristallino, pieno di pesci e salato; sentivo l'odore e il sapore del sale... Ci immergevamo e nel frattempo ci baciavamo, mi bruciavano gli occhi per la salsedine e adoravo tutto ciò che stava accadendo. Poi di colpo rinvenni: mi mancava l'aria. Ansimai come uno che ha appena corso la maratona di New York, e mi alzai di scatto. Mi sedetti sul letto, feci dei respiri profondi e mi calmai. Era solo un bellissimo sogno dove tu, Josh, ti eri addentrato troppo. Poi mi venne un'idea magnifica. Aspettai che Adele si svegliasse e facesse colazione per prendermi sul serio. Erano le 6 del mattino. Potevano volerci ore prima che riprendesse coscienza, quindi accesi la TV in camera. Come al solito, non c'era nulla d'interessante. Chi, del resto, guarda la televisione a quell'ora? Nessuno. Guardai un documentario sui ghepardi, uno sul sistema solare, un altro su Leonardo Da Vinci... mi addormentai in meno di 3 secondi.
In quel momento ero su un motoscafo e che motoscafo: era gigantesco e andava velocissimo. Chi lo stava pilotando? Stavo andando a vedere quando... BAM! La barca si schiantò contro uno scoglio. L'imbarcazione stava affondando, io stavo annegando, stavo morendo. Poi vidi lei... che cercava di salvarmi. Invano, annegammo entrambi. Cercai di buttarla verso la superficie, tutto inutile: ormai era finita la riserva d'aria. Eravamo morti... eravamo in paradiso... eravamo nell'inferno? Me lo immaginavo diverso: pensavo fosse come quello descritto da Dante nella Divina Commedia.
Invece no... era tutta un'altra cosa.
L'inferno era uguale al paradiso solo che, invece di avere gli angeli cherubini, c'erano creature simili a fate. Erano di una bellezza incantevole e inquietante; avevano molte ali, forse una decina. La testa di ognuna di loro era di un colore diverso, dalle sfumature opache a quelle molto accese. Tutte le fate avevano con se dei doni che emettevano fischi, urla, pianti e lamenti. Dovevano di sicuro contenere le anime. La mia anima era intatta perché si trovava nel corpo di una fata. Quella di Adele non c'era; o forse si: era dentro la mia scatola.
–Adele!– volevo tornare alla realtà nel minor tempo possibile. Ero ancora in uno stato di dormiveglia, stavo percorrendo un tunnel pixellato verso una porta di acciaio... –Adele!– sentivo solo il mio respiro affannato percorrermi le ossa e dei lamenti agghiaccianti provenire da dentro di me.
La mia faccia arrossiva e bruciava, come schiaffeggiata da qualcosa o qualcuno. Trasudavo continuamente, bruciavo e urlavo.
Volevo raggiungere quelle urla.
Volevo raggiungere Adele.
–Josh! Svegliati!– sentii qualcuno gridare impaziente. Quella voce era familiare... Oh. Aprii gli occhi di scatto, vedevo ancora immagini sfocate delle fate. Non dissi nulla né mi mossi. Ero terrorizzato da qualcosa che non esisteva: dalla magia.
–Josh! Oh mio Dio! Che cosa... è successo?! Urlavi! Continuavi a dire il mio nome. Sei tutto sudato, forse stai male... ti prego parlami!– quanto mi dispiaceva per lei. Cercavo di comunicare, ma non ci riuscivo. Con un gesto brusco, senza rendermene conto, mi afferrai il viso tra le mani.
Mi arrivò una fitta allucinante alla testa. Stavo gemendo, proprio come l'anima di Adele poco prima. E poi ripercorsi tutto, ancora una volta. Questa visione era accompagnata da una luce bianca accecante e da una scritta appena visibile: Queste parole non saranno di aiuto. Sai solo una cosa, ma non l'hai mai scoperta. Né vista. Potrai camminare per sempre e non sarai mai stanco. Potrai dormire sempre e non sarai mai cosciente. Potrai morire continuamente ed essere vivo. Catramus Lavus!
La visione finì; ero in uno stato di trance. Dopo un periodo che mi sembrava infinito, blaterai –L'hai visto anche te?– e Adele, ancora confusa, rispose –Cosa significa? La visione, la luce bianca, la scritta, le suore alate... il coro di sirene. Perché eravamo in contatto? Mi hai attraversato la mente?– indietreggiò –Cosa sta succedendo, Josh?–. A me lo chiedeva? Cosa potevo saperne! Quindi secondo lei erano suore, non fate. E i lamenti delle anime cori di sirene. Non avevo tempo per rifletterci su, –Non ne ho la minima idea! Pensi che io sappia cosa significa? Ovvio che no!– mi alzai di scatto –Non mi è mai successa una cosa del genere–.