8. Burlone

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Trecentoventidue giorni prima

Il fumo dell'ennesima sigaretta mi riempì i polmoni.
Erano le due del mattino, ed io non riuscivo come al solito a prendere sonno.

Avevo il petto completamente in subbuglio.
Il telefono continuava a vibrare e vibrare sul piano rovinato e legnoso della mia scrivania.

Non c'era bisogno di controllare.
Sapevo bene chi fosse.

Talvolta non si faceva vivo per mesi, talvolta mi assillava per ore.
Da me però non avrebbe ottenuto alcuna risposta.

Avrei dato tutto ciò che possedevo, per poter tornare indietro nel tempo, e cancellare senza ripensamenti tutto quello che era successo.

Tutto quello che avevo fatto.

Tutto quello che avevo distrutto, lanciandolo violentemente contro un pavimento di pietra antica e durissima.

In ogni caso, non esisteva una gomma magica, o una dannata macchina del tempo.
Non potevo tornare indietro.

Esisteva però il veleno, di mille tipi diversi.
Io ne abusavo giorno dopo giorno, e tutto quello che riuscii miseramente a constatare fu che non mi stava uccidendo abbastanza.

Non come avrei voluto, per lo meno.

Giunsi così alla conclusione che forse fanno più male i ricordi, del veleno.
E che a quest'ultimo, purtroppo, ci si abitua in men che non si dica.

Ai ricordi, quelli dolorosi, invece, non ci si abitua mai per davvero.

Quella era per me la terza notte completamente insonne.
Ero abituato a dormire poche ore, spesso rimanevo sveglio durante la notte, ma allora avevo senza dubbio superato il mio record.

Tutto grazie al maledetto, bellissimo Dabi, alle sue dita lunghe che continuavano a mandare ininterrottamente messaggi, e alla sua faccia angelica e mostruosa a pochi metri da me, nel cortile del mio appartamento.
Restava seduto lì intere nottate.

'Scendi, sono qui.' mi scriveva, ed io non avevo mai osato portare il mio schifosissimo culo là sotto.

Rimanevo lì, serrato nella mia stanza, in preda a mille fantasmi e luci del passato, che sapevano esattamente in che modo tormentarmi.

Sbirciavo dalla finestra ed incrociavo il suo sguardo gelido soltanto per un secondo, un misero, maledetto secondo, che bastava a farmi venire la voglia di vomitare e di autodistruggermi completamente.

Non lo faceva sempre, soltanto a volte, quando decideva che era il caso di riprovarci, di riprovare a parlare con me.
Ma io in quel modo non sarei mai riuscito a passarci sopra.

Non lo avrei fatto a prescindere, in realtà.
Avrei però preferito non vederlo più, come se si fosse dissolto magicamente nell'aria, insieme al ricordo di tutta la mia felicità.

Le ombre si dissolvevano alle prime luci dell'alba, quando il tormento svaniva, e Touya si rassegnava.
Se ne andava, lasciandomi impalato e confuso.
Ed io non sapevo mai se ci avrebbe riprovato il giorno dopo, o se sarebbe sparito per una, due settimane, o addirittura mesi, illudendomi che forse anche io sarei potuto fuggire da quell'incubo scuro che aveva oramai preso possesso di me.

Taxi Cab - Kiribaku/BakushimaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora