12. Occhi da gatto

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Il suo timbro mi parve ancora più virile e profondo di quello che ricordavo.

Cole era appoggiato al muro, con indosso una felpa nera che tirava sui bicipiti scolpiti, questi emanavano una forza dirompente mentre un paio di pantaloni scuri esaltavano la fisicità atletica delle gambe lunghe e sode. I capelli scompigliati e l'atteggiamento irriverente da arrogante ostinato, irradiavano una sensualità magnetica e smaliziata. I suoi occhi che ricordavano il colore di un fondale caraibico scivolarono lungo tutta la mia figura, fissandomi intensamente. Si soffermò ad analizzare ogni impercettibile particolare, esaminò l'insieme caotico di emozioni che mi stava bruciando il viso, poi studiò il mio abbigliamento, dai jeans chiari alla semplice maglietta bianca, e d'un tratto, come colto da un improvviso interesse, imprigionò un dettaglio in particolare del mio corpo su cui indugiò senza alcun pudore: la pelle candida che spuntava fuori dalla manica stracciata della miamaglietta.  Inaspettatamente, arrossii quando percepii il suo sguardo tenebroso addosso, così feci un respiro profondo e con uno sforzo inaudito, mi convinsi a dire qualcosa così da spostare il focus della sua attenzione altrove.

«Mi stai perseguitando per caso?» lo incalzai per distoglierlo dai suoi pensieri.

«No, ma forse è ciò che vorresti...» controbatté furbamente. «Questo è il tuo modo di accogliere le persone? Se è così mi impegnerò affinché io venga a trovarti più spesso» sussurrò volutamente lascivo, mentre un lampo di malizia gli colorò le iridi vitree. Sorrise compiaciuto e si avvicinò a me di qualche passo. Cercai di non mostrarmi sopraffatta dalla sua figura, dal profumo afrodisiaco che emanava e dalle sue labbra che, da quella distanza, mi parvero più carnose della sera precedente. Mi resi conto del significato perverso del suo messaggio velato soltanto dopo averci riflettuto qualche secondo. 

«Non sei divertente...» borbottai e indietreggiai per recuperare la giusta distanza. Gli assestai un'occhiataccia prima di voltarmi di colpo per tentare di nascondere dietro le spalle il mio evidente imbarazzo. Cercai di tranquillizzarmi, socchiusi le palpebre per un momento e inspirai una gran quantità d'aria, come se fossi rimasta a corto fino a quell'istante. Poi, mi toccai le guance e, purtroppo, potei constatare quanto fossero diventate bollenti, così feci un lungo sospiro buttando fuori tutto il disagio che stavo provando a causa delle sue impertinenti provocazioni. 

«Non ho mai detto di esserlo» la voce di Cole, bassa, profonda e baritonale mi costrinse a guardarlo di nuovo. Mi voltai verso di lui con immensa fatica. 

«Che è successo alla tua maglietta?» domandò dubbioso.

«Si è impigliata in un chiodo» risposi sbrigativa. Era chiaro che non volessi soffermarmi troppo sulla vicenda.

«In un... chiodo? Quanto sei sbadata, dovresti fare più attenzione...» mi redarguì con una smorfia che avrei voluto cancellare dalla sua faccia a suon di schiaffi. L'antipatia istintiva e la curiosità sincera che mi suscitava insieme erano qualcosa di incredibile; qualcosa che mai nessuno mi aveva mai scatenato prima di allora. Forse era proprio per tale ragione che la sua presenza mi destabilizzava così tanto.

«La coordinazione non è il mio forte, dovresti saperlo»

«Dovrei saperlo? ...» aggrottò le sopracciglia in un cipiglio confuso e mi osservò scettico, come se non avesse compreso il significato della mia frase.

«Non ti ricordi? Mi sono quasi rotta una caviglia...» spiegai incredula. La ruga d'espressione che poc'anzi gli aveva accarezzato il volto, scomparve lasciando spazio ad uno stupore contenuto.

«Ah, sì. Ora che mi ci hai fatto pensare, sei davvero scoordinata» mi rispose in modo risoluto, afferrò il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans per controllare l'ora, oppure qualche messaggio. Non seppi dirlo con precisione. Poi, lo ripose immediatamente.

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