2. Re Mida

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... Quattro giorni dopo...

Le prime 48 ore erano passate, così come le 48 ore seguenti. Ma Simone ancora non si svegliava.

Le sue condizioni di salute non lasciavano ben sperare: trauma cranico, braccio destro rotto, due costole incrinate, possibile lesione cerebrale (da valutare al risveglio). I parametri vitali erano ancora instabili, il corpo estremamente provato dall'incidente.

Nelle 24 ore successive alla disgrazia né Manuel né Dante si erano allontanati per un istante dall'ospedale. Non c'era stato verso di farli desistere: non avevano alcuna intenzione di lasciare Simone da solo. Si sentivano entrambi responsabili per quanto gli era accaduto, colpevoli di averlo fatto soffrire ingiustamente, senza nemmeno dargli una spiegazione. Condividevano in silenzio quei momenti d'angoscia, facendosi bastare l'uno la muta presenza dell'altro - ognuno con un diverso fardello sul cuore, immerso nel proprio tormento, intento a fare i conti con il peso dei rimpianti: Dante, per non essere stato vicino a Simone quando più ne aveva bisogno e per non avergli ricordato a sufficienza quanto gli volesse bene; Manuel, per non aver avuto il coraggio di dirglielo mai.

Non si parlavano: in quella circostanza ogni frase sarebbe stata superflua - era il dolore ad unirli, ben più delle parole.

Anita era passata da casa per farsi una doccia e per prendere qualche coperta. Una volta tornata in ospedale li aveva trovati addormentati: Dante seduto per terra, la testa abbandonata contro il muro della sala d'attesa; Manuel rannicchiato sulle sedie, la giacca di Simone a fargli da cuscino improvvisato. Volevano esserci quando Simone si sarebbe risvegliato. Perché Simone si sarebbe svegliato, era solo una questione di tempo: un esito diverso non era possibile, non era nemmeno lontanamente pensabile.


Settimo giorno.

Dante era a pezzi: per non pensare era rientrato a scuola e aveva ricominciato ad insegnare, stare con i ragazzi gli faceva bene. Anche Manuel era tornato in classe, su insistenza della madre, ma non era affatto concentrato. Le ore sembravano interminabili, i minuti scorrevano penosamente: solo le lezioni di filosofia lo facevano stare un po' meglio, perché guardare Dante muoversi per la classe era come vedere Simone. Padre e figlio avevano lo stesso modo di camminare, con quell'andatura bizzarra e a tratti goffa per via dell'altezza; la stessa maniera di piegare la testa quando erano chiamati a rispondere ad una domanda che non si aspettavano; la medesima ruga di espressione ai lati della bocca; il medesimo sorriso, tanto spontaneo quanto raro.

Simone gli mancava da morire.


Decimo giorno.

Tutti i giorni dopo la scuola Dante e Manuel andavano insieme in ospedale da Simone. Più tardi, uno dei due andava a prendere Anita al museo dove lavorava, per poi far ritorno all'ospedale. A quel punto Manuel insisteva per rimanere ancora qualche ora, ma Dante lo minacciava di farlo bocciare se non fosse tornato a casa a fare i compiti e a cercare di svagarsi.

Svagarsi. Era una parola. Manuel non riusciva a pensare ad altro che a Simone, alle ultime parole che si erano scambiati, al fatto che non c'era ancora stato un miglioramento nelle sue condizioni.

"Tu per me manco esisti."

Aveva ancora davanti agli occhi lo sguardo distrutto di Simone, i suoi grandi occhi da cerbiatto gonfi di lacrime che in silenzio lo supplicavano di dargli una possibilità. Era stato straziante urlargli quelle parole, voltargli le spalle e sentirlo andare via, ma era stato necessario: Simone era pronto a cacciarsi nei peggiori guai per lui, ma Manuel non glielo avrebbe permesso - a costo di farsi odiare, a costo di perdere il suo affetto per sempre. Ora però rimpiangeva ogni singolo secondo che non avevano trascorso insieme, tutti gli abbracci che non gli aveva dato, ogni carezza che gli aveva negato: aveva ragione Battisti, è solo la paura che inquina e uccide i sentimenti.

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