La malattia

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Quel giorno ero venuta a prendere da scuola la mia migliore amica, lei andava in un antico collegio a servizio di un ordine religioso cristiano, io ero uscita prima da scuola e dato che mio fratello era nello stesso edificio ne avevo approfittato. Ero scesa dalla macchina di mia nonna che prima era venuta a prendere me. Il cielo era sereno senza una nuvola e il sole splendeva. Un leggero venticello soffiava verso di me. Una piccola brezza calda. Al primo soffio verso di me rabbrividii. Mi sembrava di morire di gelo. Avevo la pelle d'oca. Ero allibita: non avevo mai avuto freddo a settembre. In quel momento mi venne in mente una cosa. Il mio peso era drasticamente calato. I miei minuscoli polsi sembravano due bottoni. Sembra una cosa insignificante ma mi fece riflettere. Non mi ero resa conto di quello che facevo fino a che una semplice folata di vento non mi stava quasi per buttare per terra con la sua minima violenza. Stavo pensando tra me e me quando il suono di una campana li riportò alla realtà.
"Scendi e dimmi se la vedi!
Così la chiami." Mia nonna mi aprì la portiera e scesi.
Una fiumana di ragazzi del liceo invase metà strada. Tutti che partivano con i loro motorini o le loro biciclette. Guardavo in mezzo col tentativo di vederla. C'erano urli e schiamazzi, molti non mi avevano mai vista mi fissavano. Odiavo essere guardata dalla gente, mi metteva in soggezione sapere che qualcuno ti osservava. Da sempre la mia pura più grande sono state le opinioni delle ragazze. Temevo sempre di avere qualcosa che non andasse, di essere truccata male o di essere grassa.
In quel momento la vidi e corse verso di me. Mi presento di suoi amici. Avevo paura a fare conoscenze; non che fossi una ragazza asociale e psicopatica ma preferivo stare per conto mio. Mia nonna la obbligò a rimanere a mangiare. Non so perché ma anche se le volevo bene non volevo vive mi vedesse mangiare. Il solo pensiero mi faceva rattristare. Prima che si cuocesse il cibo andammo in camera mia, o meglio in casa di mia nonna che spacciavi per mia. Ho sempre amato quel posto, mi faceva sentire protetta e in un luogo così stavo bene.
"Mi sento grassa. Guarda qua che cosce!" Si ripeteva lei. Sentivo ma volevo essere sorda per non ascoltare quelle frasi , mi facevano così male che quando mangiavo le ricordavo. Ricordavo tutto. Durante j pasti cercavo disperatamente di avere la portata più piccola e quando nessuno mi guardava a volte travasavo ciò che avevo nei piatti degli altri. Alla notte nel mio letto prima di dormire mi spogliavo, rimanevo i mutande e mi guardavo. Dovevo tener d'occhio il mio corpo. Mi vedevo magra ma non me ne rendevo conto. Per me non era abbastanza. Desideravo solo evitare di mangiare.
Il giorno che ho scoperto davvero di avere un problema serio è stato il 4 ottobre 2014.
Avevo nascosto un pezzo di pane dentro un tovagliolo di carta.
Mia madre vide tutto e quando venni scoperta la pregai di non raccontare nulla a mia nonna, una di quelle persone che vivono per il cibo. Se glielo avesse detto mi avrebbe massacrata di parole. Parole cattive e soprattutto minacce. Quel pomeriggio piansi sempre.
Lei giuro di non dire niente.
Arrivata a casa mia nonna era viola dalla rabbia.
Gridò contro di me.
"Sei anoressica" mi diceva
"Se continui così ti tocca andare in ospedale"
"Dovranno infilarti delle sonde per mangiare".
Non volevo sentire niente, perché avevo paura.
Paura delle conseguenze anche se quello che facevi mi piaceva, mi faceva sentire bene. Il mio stomaco era talmente abituato che ormai non sentivo quasi più il senso di fame. Il mio cervello era consumato, pieno di parole e soprattutto non volevo che venisse, un'amica che compare sempre in questi casi. Ti chiama per nome, o meglio ti chiama con i nomi che ti farebbe piacere sentire. Ti aiuta in quello che più ami. Ti dà consigli ed è sempre lì pronta a consolarti.
La odiavo. Ma sognavo che venisse da me a prendermi una sera. Che nominasse il mio nome è che mi portasse via. Bel modo che aveva creato X per me.
Non era amica di X, voleva bene solo a me.
Vestita di nero con uno sguardo maligno. Non c'era neanche bisogno che la salutassi: quando arrivata la sentivo. La sua presenza incombeva su di me. I miei occhi la riconoscevano e quando stava lì. La vita e la morte sembravano così vicine a me, un passo dal morire
un passo dal vivere.
Lei non lo avrebbe mai permesso.
Era troppo occupata a farmi piangere, respirare, pensare che si dimenticava di darmi da magiare...

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