𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜𝑙𝑜 𝐼𝑋 - 𝑂𝑏𝑏𝑙𝑖𝑔𝑜 𝑚𝑜𝑟𝑎𝑙𝑒

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Liviel piano piano si era finalmente resa conto che il destino l'aveva irrimediabilmente portata a un grosso cambiamento. Più attingeva al suo potere celestiale, più lo sporcava con la nera cupidigia dell'inferno e più lo sporcava, più il cambiamento diveniva radicale, senza possibilità alcuna di trovare una reale soluzione a questo enigma.

Prese a camminare su e giù per la stanza adibita agli ospiti in cui Tristan l'aveva trasportata dopo la riunione.
Era una stanza maestosa, in stile barocco, almeno così le sembrava.

Rilucente e sporcata d'oro in tutti gli angoli.

Colonne portanti raffiguravano le gesta di famosi condottieri, scorse molti visi umani e qualche viso demoniaco che in passato aveva ucciso, lì dietro ad un arco un piccolo ingresso dove al centro della stanza vi si mostrava maestoso un letto enorme, con coperte bianche.

Si avvicinò e ne toccò la superficie.
Lino, l'aveva riconosciuto solo grazie agli insegnamenti di Amariel, un materiale che aveva rubato ad una guardia celeste che aveva trasgredito alle regole, scendendo sulla terra di nascosto.

Ecco di che materiale vi era fatto quel tessuto, di risentimento e regole.

Poi, guardò in alto.
Sul soffitto nero le costellazioni facevano da punto luce, e lì in mezzo a tutte quelle stelle c'era l'Eden, la sua casa.

Il suo rifugio sicuro.

Smise di guardare, il senso di perdita era troppo forte per essere ignorato.

Fuori dalla finestra riusciva a scorgere le fiamme blu dell'inferno, che cozzavano con tutto l'arredamento di quel posto.

Nella grande sala dell'ingresso di quella stanza vi era posto un tavolo di marmo bianco e sedie d'oro, intagliate perfettamente, a ricreare due troni. Dietro delle corna intrecciate di qualche nuovo essere. Dei quadri che raffiguravano visi assenti e disillusi e infine un tappeto enorme davanti a un finto camino nero.

Si sedette in uno dei troni e provò a pensare a qualcosa di diverso dallo scontro animato con il potente Arawn.

Provò a pensare al padre, al fatto che il grande protettore dei cieli non l'avesse minimamente cercata, al fatto che quei guerrieri fossero pronti anche a dichiarare battaglia ad una loro simile e alla sensazione di tradimento che provava ogni volta che il vento gelido le accarezzava il viso stanco.

Era stata semplicemente abbandonata, come terra nel deserto.

L' attacco nel giardino aveva messo in chiaro le cose anche a lei. Nessuno era lì per liberarla o riportarla a casa, si erano semplicemente dimenticati di chi fosse realmente, come era successo con gli altri angeli caduti, per il paradiso non eri mai esistito, eri una semplice macchia di passaggio da pulire alla fine della giornata.

Bussarono alla porta.

«Posso entrare?»
Freya aspettò fuori dalla porta senza pretendere di ricevere risposta.
«Certo, entra pure.»
Era stata stranamente gentile con lei, dopo che aveva salvato Tristan dalle ire di suo marito.
Le aveva rivolto parole d'incoraggiamento e di fiducia.
«Vorrei chiederti una cosa, se posso.»
«Chiedi pure, Freya.» La guardò interrogativa.
«Puoi smetterla di interrogarti su cosa voglio chiedere.»
Liv la guardò stranita.
«Cosa?» Si sentiva turbata.
«Si, posso vedere piccoli stralci dei tuoi pensieri, se non me lo impedisci. Diciamo che diventa un consenso indiretto. Ho visto anche strascichi di ciò che ti ha trasmesso Tristan. Davvero divertente!»
«Come puoi chiamarlo consenso indiretto? Si chiama violazione dei propri diritti.»
Non sapeva nemmeno lei cosa pensare, figuriamoci immaginare di escluderla senza conoscere le sue abilità.

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