15 Novembre 2014

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Aspettai sue notizie per più di una settimana.

Stavo seduta lì, sulla poltrona vicino al camino con lo sguardo fisso nel vuoto.

All'ospedale avevano consigliato di andare a casa, se ci fossero stati problemi avrebbero chiamato.

Stavo seduta lì a ripetere ogni singolo secondo dopo l'incidente. Il senso di rottura dentro di me, l'ambulanza, il bianco dell'ospedale, la lotta per rimanere con lui.

Ero anche svenuta nel vederlo collegato alle macchine, tubi, aghi, monitor ovunque.

«Tieni, mangia» mia madre mi porse una mela all'improvviso, non l'avevo nemmeno sentita avvicinarsi.

«Si vedono le ossa, mangia» mi spronava a inghiottire del cibo, ma non ci riuscivo.

«Non ho fame» mormorai per mandarla via.

«Sei testarda, lo so. Quando eri piccola...» ecco che ricomicia con le solite storie inventate. Non ricordava nulla della mia infanzia, ma si sforzava di raccontare storielle pescate da chissà quale telefilm.

«...sei caduta dalla bici. Io ero nel giardino posteriore e sono corsa a vedere che succedeva quando ti ho sentito piangere, ma tu non hai voluto il mio aiuto. Una piccola guerriera. Ti sei rialzata, ti sei asciugata le lacrime e ti sei rimessa in sella» concluse.

Mi stupì sentire per la prima volta una storia nuova, vera.

Girai la testa per guardarla negli occhi. Era bellissima anche struccata, con il pigiama. Non dissi niente, mi limitai ad osservarla.

«Va bene, chiamo Carlo e vedo se ci sono novità» esordì dopo qualche istante, forse intimorita dal mio sguardo vuoto.

Si alzò e andò verso il telefono, io riportai la testa alla posizione originale e sospirai, non facevo altro da una settimana.

Appena mia madre iniziò a conversare, tesi l'orecchio per ascoltare.

«Sì. Glielo dico subito. Arriviamo appena possibile. É una notizia fantastica. Certo, ci vediamo dopo. Ti amo» buttò giù.

«Anna, Alex si è svegliato. Ha chiesto di te, è il caso di andare» nemmeno il tempo di finire la frase che io ero già in piedi vicino alla porta, scarpe, giubotto, pronta ad andare.

Arrivammo dopo circa mezz'ora.

Avvicinai una sedia al suo letto. Alcuni monitor erano finalmente spariti e lui dormiva sereno.

Nonostante avessi tanto voluto parlargli, lo lasciai dormire.

Mia madre e Carlo erano ai piedi del letto, lui la reggeva, in fondo erano le due di notte.

«Noi aspettiamo fuori, nella saletta qui vicino» mormorò Carlo con fare premuroso. Il sonno stava prendendo il sopravvento su tutti, anche su di me.

Presi la mano di Alex e la strinsi contro la mia guancia. "Quanto darei per riaverti".


Mi svegliai di soprassalto, qualcuno mi stava accarezzando la testa.

«Alex!» esclamai con gioia. Un'entusiasmo che non avevo mai avuto prima, quasi scoppiai a piangere per la felicità di sentire la sua voce.

«Ti amo anche io» sussurrò passandomi le nocche sulla guancia.

«Cosa?» improvvisamente ero confusa. Avevamo lasciato una discussione in sospeso? Quando?

«Me l'hai detto tu. Diciamo che non ho avuto il tempo di rispondere» mi tornò tutto in mente. Il mio "ti amo" prima dell'incidente, come avevo potuto dimenticarlo.

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