L'ASSURDO CASO DELLA CITTA' DI COLGA

22 2 0
                                    

Non sottovaluto mai le parole dei miei pazienti, per quanto possano essere assurde o incredibili.

Ho sempre avuto a che fare con casi particolari, ma questo risale al mio periodo da neo-laureato, fresco di specializzazione.

Quando sei il più giovane, fai fatica a capire se ti assegnano i lavori più difficili per gavetta o per affossarti, ma il modo migliore di affrontarli è a testa alta senza dare troppo peso alla difficoltà.

Nel mio caso, dovevo ottenere informazioni da un altro psichiatra ormai da qualche anno rinchiuso in un ospedale psichiatrico, il dottor Catalani.

I fratelli dovevano dividere l'eredità con lui e volevano assicurarsi della sua infermità mentale per ottenere una fetta più grossa.

Non mi giudicate, vi prego, so che è sbagliato ma è sempre il mio lavoro, ok?

Mi sono presto presentato all'ex-collega lì al Centro di Cura Mentale S.Gloria, ho subito notato uno sguardo ostile e intellettuale, come se volesse prendermi in giro. Teneva in braccio una grossa roccia e aveva una gamba legata al letto da una piccola catena. Il suo aspetto era stanco e poco curato ma si vedeva sotto quella barba incolta che fosse un bell'uomo.

"E' qui per la faccenda di mio padre, vero?" mi ha chiesto lui senza guardarmi.

"Si, non pensavo fosse informato" ho risposto con stupore.

"Non ricevo visite e mio padre era malato da prima che io finissi qui dentro. Se è qui per assicurarsi che io non sia guarito allora può anche andarsene soddisfatto" Mi ha detto degnandomi di una fredda occhiata.

"Ho bisogno di sapere di più. Non sono un avvocato." Ho risposto sedendomi davanti a lui.

"Quei cani dei miei fratelli. Sono anni che la tiravano a nostro padre. Ora non basta un terzo dell'eredità?" Mi ha detto rilassandosi un po'.

"Le racconterò quello che è accaduto a Colga. Voglio vedere se avrà il coraggio di darmi del pazzo quando avrò finito." Mi ha detto mostrando una lieve ostilità.

Ha poi preso a raccontare con estrema sicurezza.

"Ero in un gruppo di psichiatri e psicoterapeuti della mia città natale, avevamo deciso di dividerci per le piccole province e dintorni al posto di lavorare nella grande città. La scelta era quasi sempre casuale e a me era capitata Colga, una piccola città di origine medievale sorta intorno ad un piccolo lago.

Soggiornavo in una casetta che mi faceva anche da studio, gentilmente offerta dal sindaco di Colga.

Lì sono stato ufficialmente presentato durante un'assemblea cittadina, scatenando verso di me sguardi di disprezzo o indifferenza.

Ricordo di aver pensato «Ho fatto un bel buco nell'acqua» ma dopo quasi una settimana ho ricevuto la mia prima e ultima paziente.

Era una ragazza di sedici anni, capelli biondi e lisci, una carnagione chiara e delle profonde occhiaie.

Si era presentata nel mio studio come un animale ferito, a testa bassa e con le braccia incrociate per coprirsi lo stomaco.

«Come posso aiutarti?» le ho detto.

«Ho bisogno di aiuto...sento che la gravità mi sta abbandonando.» Mi ha risposto lei in lacrime.

Una simile dichiarazione mi ha subito fatto pensare a un qualche delirio dato da una droga, ma lei era pulita e conscia, eppure, terrorizzata da un'assurdità.

«Sento che il mio corpo si sta opponendo alla forza di gravità. I miei capelli hanno cominciato ad andare verso l'alto e il mio sudore sale lungo la mia pelle.» mi ha spiegato lei.

Chiaramente dovevo capire l'origine di questa paura, forse un trauma o qualche suggestione. Ma per quella sera l'ho mandata a casa prescrivendo un buon sonnifero, a mente riposata e lucida avrei ottenuto migliori risultati.

E' tornata due giorni dopo, le occhiaie non erano sparite, anzi, erano forse peggiorate. Aveva rasato i capelli e aveva le tasche traboccanti di piccoli sassi.

«Ho dovuto farlo. I miei capelli svolazzavano come i fili dei palloncini. Non riuscivo più a dormire e...ho dovuto farlo.»

La situazione mi stava sfuggendo di mano.

Dopo aver fatto la seduta le ho chiesto di farmi parlare con i suoi genitori.

Loro erano molto alti e solari, ho pensato che anche loro stessero sottovalutando la storia della gravità.

«E' solo una fase. I ragazzi hanno paura di cose assurde» dicevano loro ridacchiando.

Non riuscivo a venirne a capo. Nella loro spensieratezza, i suoi genitori, erano inespugnabili, ma ho chiesto loro di starle accanto e aiutarla nei momenti di maggiore crisi, oltre ad aiutarla a seguire la terapia di psicofarmaci.

Sono passati altri due giorni e lei è venuta in studio in preda al panico dicendo

«Qui sono tutti pazzi! Loro vogliono che io voli via! La prego dottore mi aiuti!»

Mi teneva stretto e tremava come una foglia, singhiozzando e piangendo disperata.

« E' troppo tardi ormai! Ho bisogno di aiuto! I miei sassi non funzionano!» ha urlato svuotandosi le tasche.

Non potevo fare nulla per calmarla e temevo potesse fare del male a me o a se stessa, quindi ho provato ad aprire la porta della mia casa-studio per uscire e lì ho capito.

Tutti gli abitanti di Colga fluttuavano nell'aria come neve che cade al contrario.

Avevano un'espressione serena, come se fossero addormentati.

Mi sono girato verso di lei, ma era tardi, fluttuava serena come tutti gli altri.

Sono uscito dallo studio guardandomi attorno con l'angoscia, vedendo che lentamente anche le auto, gli alberi, le case e piano piano anche blocchi di strada e il lago iniziavano a galleggiare nel nulla.

Non so se descrivere quella scena se con paura o con meraviglia, era surreale eppure succedeva con totale naturalezza e senza rumore, come se fosse qualcosa di spontaneo.

Col passare dei minuti, lentamente, tutta Colga era volata via, lasciando quello che sembra una terra brulla e senza identità"

Il dottore aveva finito di raccontare la sua assurda storia e una lacrima gli era scesa lungo il suo volto scavato.

"Tu non mi credi non, non è così?" mi ha detto con voce carica di delusione.

Ha lasciato la roccia sul letto e mi ha guardato negli occhi per qualche secondo, poi ha preso un lungo respiro e con aria serena i suoi piedi si sono separati dal suolo giusto di qualche centimetro. La catena che aveva alla caviglia limitava il suo galleggiare.

In pochi secondi è partito un allarme e numerosi infermieri, coperti fino a sopra la testa, sono entrati nella stanza del dottor Catalani per tirarlo giù e farlo rinsavire. Per sicurezza mi hanno fatto uscire dall'ospedale chiedendomi di non tornare.

Il dottor Catalani si è suicidato qualche giorno dopo il nostro incontro e nessuno all'interno dell'ospedale ha più voluto parlarne.

STORIE DI UNA TERRIBILE REALTA'Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora