28 - Il risveglio

2 2 0
                                    


Sabato mattina il sole era alto, la stanchezza era così reale al punto da avere un colore, uno spessore e un peso. Era qualcosa di materiale, tangibile, poteva essere visto, oltre che provato. Robert si sentiva oppresso, schiacciato dal suo stesso peso. Lottava con tutto se stesso per riprendere possesso del suo io, combatteva. Si sentiva inerme, sconfitto da quella forza superiore, come fosse imbavagliato, legato, costretto a rimanere lì immobile a subire passivamente una gravità esagerata. Voleva resistere, opporsi, ribellarsi, voleva urlare la sua forza ma questa era assente. Si sentiva innocuo, impoverito del suo corpo, come fosse una foglia spinta dal vento. Il vento. Quello lo avvertiva. Avvertiva l'aria fresca di una giornata calda. Gli dava speranza, sopravvivenza. L'aria arrivava in faccia e lo teneva in vita. Cercava di aggrapparsi a questa speranza galleggiante, sentiva che doveva cavalcarla, rincorrerla e farsi portar fuori da quell'abulia. Ogni spiffero, ogni soffiata, folata, era come gocce di fiducia, di desiderio di vittoria. Sentiva che insistendo avrebbe potuto farcela grazie a quel vento d'aria fresca. Le vibrazioni fecero il resto. Avvertì una scossa su tutto il corpo, un rumore di fondo non troppo lontano che accompagnava il ritmo tribale di quelle vibrazioni. Stava prendendo coscienza. Poteva reagire, combattere e riacquisire forza, quella forza necessaria a vincere quelle contrarie. Sentiva finalmente la sua presenza, avvertiva che probabilmente un corpo lo aveva ancora; doveva insistere nel cercarlo. Sapeva che prima o poi quel corpo abbandonato sarebbe tornato ad animarsi, avrebbe risposto e allora sì che sarebbero stati dolori per tutti. Poteva reagire adesso. Era un mondo buio ma lui c'era, presente e cosciente. Credette di sognare. Fu accecato quando aprì gli occhi, assordato dagli incredibili rumori esterni. Non era lui, sentiva di essere qualcun altro o qualcosa. Il corpo c'era ma gli era ancora estraneo, i rumori assordanti non appartenevano a questo mondo. Cercò di ripararsi le orecchie con le mani ma le braccia non reagivano. Poteva pensare, decidere, comandare, ma il suo corpo era spento, assente; c'era ma non rispondeva. Era stordito da quel frastuono. Avrebbe voluto urlare se solo avesse avuto un po' di coscienza a disposizione, invece la sua coscienza, il suo io, era tutta concentrata sull'assurdità di quell'incubo. Era legato, costretto su una nuvola artificiale. Un altro minuto, un altro solo minuto e sarebbe esploso sotto i colpi di quei rumori. Doveva reagire, oppure svegliarsi in fretta; non aveva molte alternative. Improvvisamente avvertì un braccio, il destro. Poteva strisciarlo, muoverlo lungo il corpo, non riusciva a sollevarlo ma sentiva che stava guadagnando centimetri importanti. Sentiva la mano, le dita; poteva comandarle, allargarle, stringerle. Afferrò la nuvola, affondò le dita come quando da bambino si riempiva la bocca di zucchero filato. Riuscì a scavarsi un varco con la mano, un piccolo varco sufficiente per liberare il braccio destro da quella morsa che lo attanagliava. Fece lo stesso con il braccio sinistro. Finalmente poteva proteggersi le orecchie da quella tortura. Aveva ancora frammenti di nuvola stretti nei pugni; la sua fortuna.

Con i palmi si tappò le orecchie, la sua salvezza. Sospirò. I rumori erano ora sopportabili, ora poteva anche cercare di ragionare su cosa stesse succedendo, si spinse quei frammenti di nuvola nelle orecchie così da foderarle e da avere le mani libere. Ora poteva liberarsi, ma dove era? Sentì anche una voce provenire da molto vicino: «Ciao bello!» disse la voce. Poi una frenata, una caduta. Riconobbe il razzo di quella notte, era gigante e lui era immerso dentro. Attimi di panico, ancora senza voce. Sentiva il respiro affannoso, i battiti irregolari e il cuore che gli palpitava in gola. Cercò rifugio infondo a quel razzo. Lo spazio era stretto e buio e lui cercava un varco, voleva scappare, aveva bisogno di nascondersi di annientarsi in attesa di svegliarsi e riprendersi da quel assurdo incubo senza senso. Non c'erano varchi o nascondigli, quello spazio era chiuso, privo di uscite. L'unica via di fuga era tornare lì da dove era caduto. Ancora una frenata. Cadde da fermo, scoprì che le vibrazioni erano quasi cessate. Era il momento di fuggire in qualsiasi direzione. Si arrampicò su qualcosa di morbido, erano grandi stoffe, si riportò lì dove il sole batteva ancora. Ancora voci vicinissime: «Ciao bello, come stai?» Robert non vedeva chi stesse parlando, ma soprattutto non gli interessava, voleva solo fuggire per nascondersi dal suo panico. Un salto, un tonfo, una corsa. Ma dove era? Cosa era? Erano ruote giganti, erano auto giganti. Capì di essere sotto un'auto, forse parcheggiata. Il cuore non batteva più, era esploso. Pensò anche di esser morto. Forse era morto.

«Buongiorno Pamela. Bene grazie, e lei? È pronta per il grande giorno?»

Sembrava la voce dell'uomo coi baffi. Ma se era morto come faceva a sentire ancora le voci? Se era morto perché pensava ancora? Se era morto perché era lì?

Aveva paura, dunque era vivo. Aveva paura di rimanere schiacciato sotto quelle auto giganti ma non poteva morire di nuovo, dunque era sicuramente vivo. Voleva scappare da tutto, anche da se stesso. Si arrampicò appena in tempo quando il mondo riprese a girare. Si tenne stretto come poteva per non precipitare. Stava viaggiando. Mentre cercava di reggersi in qualche modo sicuro riconobbe l'incrocio: era la strada che portava verso il mare. Poi una accelerata, la presa che sfuggiva, la caduta e ancora il buio.

The RockerDove le storie prendono vita. Scoprilo ora