11. ADDIO GLADYS...

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Il compito di dover comunicare la "notizia" a Steve Morante, spettava a me. E a chi altri, senno? Steve non diede in escandescenza, come invece avevo tenuto, ma chiuse con calma la casa di Cranston e venne ad abitare nel nostro appartamento. Tutti abbiamo un nostro modo particolare di affrontare il dolore. Quello di Steve consisteva nel mettersi a pulire casa... Lavare, sfregare, lucidare!
Sognava forse che Gladys sarebbe potuta tornare a casa, vero? Per questo puliva! Non riusciva ad accettare la realtà per quello che era. Lo so, con me non lo avrebbe ammesso mai, eppure so che lo pensava... perché anch'io lo pensavo!

Quando Gladys fu ricoverata in ospedale, telefonai al vecchio Jonas per spiegargli il motivo per il quale non potevo presentarmi a lavoro. Poi finsi di dover lasciare libero il telefono alla svelta, perché sapevo che era addolorato e avrebbe voluto dire cose che non riusciva ad esprimere. Da quel momento in poi, le giornate furono divise semplicemente tra l'orario delle visite e tutto il resto. E, naturalmente, tutto il resto era ... niente! Tutto il resto era: mangiare senza fame, guardare Steve che puliva l'appartamento (di nuovo) e non dormire neanche sotto l'effetto del sonnifero prescrittomi da Ackerman.
Una volta sentii Steve che borbottava tra sé: «Non ce la faccio più ancora per molto...».
Era nella stanza accanto a lavare i piatti della cena.
Non gli risposi, ma dentro di me pensai:
"Io sì... io sì! Io ce la faccio! Chiunque Tu sia, a comandare lassù, signor Essere Supremo, fa' pure che continui. Io posso andare avanti così all'infinito! Perché Gladys è Gladys! E per mia moglie sopporto tutto!".
Quella sera, proprio Gladys mi cacciò dalla stanza. Voleva parlare da sola con suo padre, da "uomo a uomo"!
«La riunione è strettamente riservata agli americani di origine italiana!», disse con un filo d'ironia.
Era bianca come il cuscino.
«Perciò, fuori dai piedi, Sanders!», disse.
«Va bene...», risposi.
«Ma non allontanarti troppo, marito, mi raccomando!», aggiunse dopo che fui alla porta.
Dove mai potevo andarmene?
Andai a sedermi in sala d'aspetto. Poco dopo, arrivò Steve.
«Dice di andare da lei. Va'Joseph, va'...», sussurrò lui con voce roca, come se dentro fosse stato tutto vuoto.
«Io vado a comprare le sigarette...», disse e si allontanò.

«Chiudi la porta...», ordinò Gladys quando entrai.
Ubbidii e, mentre mi avviavo a sedermi accanto al letto, ebbi una visione più completa di lei.
Mi spiego: con i tubi infilati nel braccio destro, che teneva nascosto sotto le lenzuola. Preferivo sempre sederle molto vicino per guardare solo la sua faccia che, per quanto fosse pallida, era ancora illuminata dai suoi splendidi occhi. Così mi sedetti in fretta e molto vicino!
«Non si soffre, amore, credimi!», disse «È come cadere a rallentatore da una montagna. Capisci?».
Mi si mosse qualcosa in fondo allo stomaco. Una cosa informe, che stava per salirmi fino alla gola per farmi piangere. Ma non l'avrei fatto. Non l'ho mai fatto perché io sono forte. E i forti sono forti, non piangono mai!
Se non voglio piangere, però, non devo nemmeno parlare. Devo solo limitarmi a fare cenno di sì. Ed, infatti, così feci.
«Ah, tutte storie...!», disse Gladys.
«Cosa?», dissi io.
Ma più che una parola fu un suono che pronunciai.
«Tu non lo sai neanche cosa vuol dire cadere da una montagna, vero Prep?», disse lei «Tu non sei mai caduto da una montagna in vita tua!», sorrise appena.
«Sí, invece...», dissi riprendendo le parola «Quando ho incontrato te!».
«Già...», ripeté lei mentre un sorriso le illuminò sul volto «"Oh, quale caduta è stata!". Chi l'ha detto?», mi chiese.
«Non... Non lo so...», dissi «Ah, Shakespeare!», affermai poi.
«Sí, ma chi?», insistette con tono lamentoso «Non riesco a ricordare neanche in quale opera. Ho frequentato Radcliffe, dovrei ricordarmele le cose. Un tempo, li conoscevo tutti i cataloghi Köchel di Mozart!», disse.
«Ma che brava!», commentai io con un mezzo sorriso.
«Puoi dirlo forte!», ribatté, ma poi corrugò la fronte «Che numero è il concerto per piano in DO minore?», mi chiese.
«Guarderò!», risposi io.
Sapevo esattamente dove cercare. A casa nostra, su uno scaffale vicino al pianoforte. Per prima cosa, l'indomani mattina l'avrei cercato e l'avrei detto a Gladys.
«Lo sapevo... Eppure lo sapevo!», disse «Ma sto perdendo colpi!» , aggiunse.
«Sta a sentire», esclamai io con stile Humphrey Borgat «Hai intenzione di parlare di musica?», domandai.
«Preferisci che parliamo di funerali?», domandò.
«No...», dissi pentendomi amaramente di averla interrotta.
«Ne ho già discusso con Steve. Joseph, mi ascolti?», domandò.
Avevo distolto lo sguardo e lei se n'era accorta.
«Sí che ti ascolto, Gladys...»
«Gli ho detto che può fare una funzione cattolica e che tu saresti stato d'accordo. D'accordo?», domandò.
«D'accordo!», confermai io.
«D'accordo...», ripeté.
Poi mi sentii quasi sollevato perché, in fondo, di qualunque cosa avessimo parlato adesso, sarebbe stato comunque meglio.
Però, mi sbagliavo!
«Sta a sentire, Joseph», disse Gladys.
La sua voce era carica di collera, anche se sommessa «Joseph, devi smetterla di tormentarti, chiaro?»
«Io?»
«Si, tu! Quell'espressione di colpa che hai sulla faccia, Joseph, non la sopporto più!», disse.
Onestamente, ci provai a cambiare espressione, ma sentivo i muscoli della faccia letteralmente paralizzati.
«Non è colpa di nessuno, Prep!» , disse «Per piacere, la vuoi smettere di dare la colpa a te stesso?».
Desideravo tanto continuare a guardarla, perché non avrei mai voluto distogliere gli occhi da lei. Eppure, mi vidi costretto ad abbassare lo sguardo. Mi vergognavo terribilmente del fatto che, anche in quel momento, Gladys riuscisse a leggere dentro di me con tanta chiarezza.
«Ascolta, Joseph, è l'unica cosa che ti chiedo. Se non fosse per questo, io so che te la caverai bene!», affermò.
La cosa che avvertivo nello stomaco cominciò a farsi sentire di nuovo e avevo paura a pronunciare anche solo un semplice "sì"!
Mi limitai a guardare mia moglie in silenzio.
«Al diavolo Parigi!», disse lei improvvisamente.
«Eh?»
«Parigi, la musica e tutte le cose che pensi di avermi rubato! Non me ne importa niente. Mi credi, amore? Riesci a credermi?», mi domandò.
«No...», risposi sinceramente.
«Allora vattene! Sparisci dalla mia vista, perché non ti voglio al mio letto di morte! È pregato di andarsene, signor Sanders!», sentenziò.
Diceva sul serio. Lo capivo quando Gladys parlava sul serio. E così mi comprai con una bugia il permesso di poterle restare ancora accanto.
«Ti credo...», mormorai.
«Cosí, va meglio. Bravo. Quando vuoi, comprendi e sei bravo. Mi fai un favore adesso?», mi disse.
Da qualche parte profonda dentro di me, ribollì un bisogno irresistibile di piangere. Ma ancora una volta riuscii a vincerlo. Non avrei pianto, no! Mi sarei limitato a far capire alla mia Gladys (con un cenno della testa) che sarei stato felicemente disposto a farle qualunque piacere.
«Mi terresti stretta a te, per favore?», domandò lei.
Le posai la mano sull'avambraccio (Dio mio com'era sottile!) e strinsi delicatamente.
«No, Joseph», sussurrò «Stringermi per davvero. Vieni vicino a me. Ti voglio vicino a me...», disse con voce flebile.
Feci molta molta attenzione, per via dei tubi e tutto il resto, mentre mi sdraiavo sul letto accanto a Gladys e passavo le braccia attorno a lei.
«Cosí va meglio. Così sto bene, amore mio!», disse sorridendo appena.
La strinsi ancora un po', baciandole i capelli. Chiusi gli occhi per qualche secondo.
«GRAZIE, JOSEPH...».
Queste furono le sue ultime parole.

Quando uscii da quella stanza, Steve Morante era nel solarium e fumava l'ennesima sigaretta.
«Steve?», lo chiamai sottovoce.
«Sí?», disse lui alzando immediatamente lo sguardo. Penso che già avesse capito. Era chiaro che avesse bisogno di qualche conforto fisico. Mi avvicinai e gli appoggiai una mano sulla spalla. Avevo paura che si mettesse a piangere. In quanto a me, ero sicuro che non l'avrei fatto. Non potevo. Cioè, ormai ero oltre tutto questo! Lui posò la mano sulla mia.

 Cioè, ormai ero oltre tutto questo! Lui posò la mano sulla mia

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«Vorrei...», mormorò «Vorrei non aver...».
Si bloccò ed io restai in attesa di ascoltare. In fondo, che fretta c'era? Non c'era più niente!
«Vorrei non aver promesso a Gladys di essere forte per te!», disse.
E per tener fede a quella promessa, mi accarezzò leggermente la mano. Io, intanto, sentivo il bisogno di stare solo. Di respirare aria. Di fare due passi! Mi sentivo sopraffatto da un macigno! L'atrio dell'ospedale, da basso, era immerso nel più profondo silenzio. Sentivo solo i miei passi riecheggiare sul pavimento.
«Joseph...».
Mi fermai. Era mio padre. Oltre alla donna addetta alla ricezione, io e lui eravamo soli. Anzi, eravamo tra le poche persone di New York sveglie a quell'ora. Non me la sentivo di parlargli. Mi diressi deciso verso la porta girevole. In un attimo, però, lui fu là fuori , accanto a me.
«Joaeph...» mormorò «Avresti dovuto dirmelo, figliolo!», disse.
Faceva molto freddo e, menomale, perché ero intorpidito e avevo bisogno di sentire qualcosa. Sembravo morto pure io!
Mio padre continuò a parlarmi ed io continuai a stare zitto, con la faccia esposta agli schiaffi del vento gelido.
«Non appena l'ho saputo, sono corso in macchina!».
Io avevo pure dimenticato il cappotto. Il freddo comunciava a darmi una sensazione di dolore. Bene, bene... Non desideravo altro!
«Joseph, voglio aiutarti!», disse mio padre con voce incalzante.
«Gladys è morta...», dissi.
«Mi dispiace...», disse in un sussurro attonito.
Senza sapere il perché, ripetei quello che, molto tempo fa', avevo imparato dalla bella ragazza che adesso era morta, la mia bellissima moglie.
«Amare significa non dover mai dire MI DISPIACE!».
E poi feci quello che non avevo mai fatto in presenza di mio padre, tanto meno tra le sue braccia: piansi...!

E chiesi perdono alla mia Gladys per non essere riuscito a mantenere la promessa che le avevo fatto

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E chiesi perdono alla mia Gladys per non essere riuscito a mantenere la promessa che le avevo fatto.
No, non sono riuscito ad essere forte per lei....

Fine...

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