10. GRAZIE PAPÀ

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Accadde circa 1 mese dopo. Avevamo appena finito di cenare. Era ancora lei ad occuparsi della cucina, aveva insistito per farlo. Alla fine, si era lasciata convincere, se non altro, a permettermi di fare le pulizie (anche se puntualmente mi sgridava perché non era un "lavoro da uomini"). Stavo riponendo i piatti, mentre lei suonava Chopin al pianoforte. La sentii interrompere il preludio a metà e corsi immediatamente nel soggiorno. Era là, immobile.

«Stai bene Gladys?», domandai preoccupato

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«Stai bene Gladys?», domandai preoccupato. Ovviamente, intendevo in senso relativo.
«Sei abbastanza ricco da permetterti un taxi?», mi domandò.
«Certo, ma... dove vuoi andare, amore?», le chiesi.
«Diciamo... all' ospedale?!», disse solo.
Nel trambusto dei preventivi che seguirono, capii che era veramente finita. Gladys sarebbe uscita in quel momento dalla nostra casa e non ci sarebbe più tornata. Se ne stava seduta, immobile, mentre io raccoglievo un po' di roba per lei. Mi domandai cosa le stesse passando per la testa. A proposito della casa, intendo. Quale cosa, quale dettaglio avrebbe guardato per l'ultima volta, per potersene ricordare?
Niente. Se ne rimase così con lo sguardo perso nel vuoto.
«Hey...», dissi avvicinandomi a lei.
La strinsi forte a me.
«C'è qualcosa di importante che vorresti portarti dietro?», domandai in un sussurro.
«Te... solo te...», rispose.

Fuori fu difficile trovare un taxi. Era l'ora dell'uscita dai teatri e roba simile. Il portiere continuava a chiamare col fischietto e ad agitare le braccia. Gladys, intanto, se ne stava appoggiata a me e, in cuor mio, sperai che non ci fosse nessun taxi. Volevo solo che lei continuasse a restare così, appoggiata a me.
Alla fine, però, ne trovammo uno. L'autista, per nostra fortuna, era un tipo gioviale. Quando sentì che doveva filare velocemente al Mount Sinai Hospital, attaccò la solita tiritera.
«Non preoccupatevi, ragazzi, siete in buone mani! Io e la cicogna siamo soci ormai da anni!», disse euforico.
Sul sedile posteriore Gladys era rannicchiata contro di me. Io le baciavo continuamente i capelli. Anche le cose più banali sarebbero potute diventare "l'ultima volta" da un momento all'altro. E il sol pensiero mi lacerava l'anima. Ma io ero quello forte, no?
«È il primo figlio?», ci domandò l'allegro autista.
Mia moglie intuì che stavo per rispondergli male e mi sussurrò:
«Sii gentile, joseph, dai. In fondo, lui cerca solo di essere gentile con noi!».
«Sí, signore...», risposi all'autista «È il primo e mia moglie non si sente bene. Perciò, le dispiace bruciare qualche semaforo?», chiesi io.
Arrivammo al Mount Sinai Hospital in un baleno. Era veramente molto cortese e scese addirittura per venire ad aprirci la portiera. Prima di ripartire, ci augurò tutto il bene e la felicità del mondo. Gladys lo ringraziò grata. Ma i nostri cuori sanguinavano silenti. "Bene e felicità"... Ma dove? Ma quando?
Gladys sembrava non riuscire a reggersi nemmeno sulle gambe. Io avrei voluto portarla dentro, in braccio, ma lei subito rifiutò.
«No, Prep, per favore. Non su questa porta...», disse.
Riuscimmo comunque ad entrare e dovemmo sopportare tutta la trafila esasperante per il ricovero.
«Avete un assicurazione o una mutua?», ci chiesero.
«No...»
Chi si era mai occupato di simili sciocchezze? Eravamo troppo impegnati ad acquistare stoviglie noi! Naturalmente, l'arrivo di Gladys non era inaspettato. Era stato già previsto e il dottor Bernard Hackerman se ne prese carico. Sì, proprio il medico chirurgo che, come Gladys mi aveva detto, era una bravissima persona, anche se un tipo Yale dalla testa ai piedi!
«Le praticheremo delle trasfusioni!», disse il dottor Hackerman «Nel suo stato ha bisogno soprattutto di questo, non di anti-metaboliti!», continuò.
«Che cosa sono, dottore?», domandai.
«È un trattamento che rallenta la distruzione delle cellule...», spiegò lui «Ma, come Gladys già sa, può provocare spiacevoli effetti secondari!», specificò.
«Senta, dottore...», dissi.
Sapevo bene che in quel momento sembrava come se gli stessi insegnando il suo mestiere.
«È Gladys che decide. Qualunque cosa dica lei, per me va bene. Voi... voi fate solo tutto il possibile affinché mia moglie non soffra!», dissi io con tono supplichevole.
Un nodo mi strinse lo stomaco.
«Può starne certo, signor Sanders!».
«Non m'importa quanto verrà a costare!», dissi.
Credo che alzai anche un po' il tono di voce, senza rendermene conto.
«Potrebbe andare avanti per settimane o mesi. Non m'importa!», dissi ancora.
Lo stavo trattando veramente coi piedi, ma lui pareva molto comprensivo con me.
«Voglio che Gladys abbia il meglio! Camera privata, infermiera privata... Tutto! La prego! I soldi non mi mancano!», dissi.

È impossibile andare dalla Sessantesima Strada est di Manhattan fino a Boston, Massachusetts, in meno di 3 ore e 20 minuti. Credetemi, sull'autostrada del Massachusetts spinsi la mia MG a 170 km orari.
Potete star sicuri che mi rasai con cura, col mio rasoio a pile e mi cambiai la camicia in automobile, prima di entrare nei "sacri" uffici di State Street. Già alle 8:00 di mattina, c'erano parecchi bestioni, dall'aria distinta, che aspettavano di essere ricevuti da Joseph Sanders III. La sua segretaria, che mi conosceva, non batté ciglio quando pronunciò il mio nome all'interfono.
Mio padre non disse: «Lo faccia accomodare».
La sua porta si aprì e lui comparve di persona.
«Joseph!», disse.
Ossessionato com'ero dall'aspetto fisico, notai che era leggermente pallido e che, in quei 3 anni, i suoi capelli si erano fatti grigi (e forse anche più radi).
«Entra, figliolo, vieni!», disse.
Non riuscii ad interpretare il suo tono. Mi limitai ad incamminarmi verso il suo ufficio.
Presi posto alla "poltrona dei clienti". Ci guardammo, poi lasciammo vagare lo sguardo tra i vari oggetti presenti in quella stanza.
Io posai il mio sulle cose che lui aveva sulla sua scrivania: un paio di forbici, una custodia di cuoio, un tagliacarte con manico in cuoio, una fotografia della mamma scattata anni prima... E una foto mia (del diploma ad Exeter).
«Come te la sei passata, figliolo?», domandò.
«Bene, signore!», risposi.
«E Gladys come sta?», domandò ancora.
Invece di mentirgli, cambiai argomento. Anche se l'argomento era proprio questo, tirando fuori la questione dell'improvvisa ricomparsa.
«Papà, ho bisogno di 5 mila dollari in prestito. Per una ragione molto importante!», dissi.
Mi guardò. E mi pare che in quel momento abbozzò un cenno d'assenso.
«Beh?», disse poi.
«Sí?»
«Posso saperla questa ragione?», domandò.
«Non posso dirtela, papà. Prestami solo quel che ti ho chiesto. Per favore...», dissi io con tono quasi supplichevole.
Avevo la sensazione (ammesso che si possano ricevere sensazioni da parte di Joseph Sanders III) che intendesse darmelo quel denaro. Intuivo anche che non avesse intenzione di farmi una delle sue solite lavate di testa.
Voleva semplicemente parlare!
«Non ti pagano da Jonas e Marsh?», mi domandò.
«Sí, signore...», dissi io.
Fui tentato di dirgli quanto, semplicemente perché si rendesse conto che era una cifra record. Poi pensai che, se sapeva dove lavoravo, probabilmente sapeva anche quanto prendevo.
«E lei non insegna?», domandò.
Beh, non sapeva proprio tutto.
«Non chiamarla "lei"...», dissi.
«E Gladys non insegna?», si corresse, riformulando la domanda in modo educato.
«... E ti prego di lasciarla fuori da questa storia, papà. È una situazione molto personale e importante!», dissi io.
«Hai forse messo nei guai una ragazza?», domandò ancora.
Ma non c'era condanna nella sua voce.
«Sí!», risposi «Sí, è così, signore! Adesso potresti darmi quel denaro, per favore?», domandai insistente.
Volevo tagliare corto. Ma sono convinto che non mi credette. Non penso neanche che volesse veramente sapere. Come ho detto prima, mi aveva interrogato solamente per poter... parlare! Allungò la mano verso il cassetto della scrivania e tirò fuori un libretto per assegni, rilegato con lo stesso cuoio di Cordova del manico del tagliacarte e della custodia delle forbici. L'aprì lentamente.
Credo, non per tormentarmi, ma per guadagnare tempo. Per trovare qualcosa da dire. Qualcosa di non irritante, ecco...
Terminò di compilare l'assegno, lo staccò dal libretto e lo tese verso di me. Forse, ci misi una frazione di secondo di troppo per rendermi conto che avrei dovuto allungare la mano per sfiorare la sua. E così lui restò lì imbarazzato (credo), ritirò la mano e posò l'assegno sul bordo della scrivania. Poi mi guardò e fece un cenno d'assenso. La sua espressione pareva voler dire: «Ecco figliolo!».
In realtà, però, non fece altro che un cenno d'assenso.

In realtà, però, non fece altro che un cenno d'assenso

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In fondo, neanche io avevo voglia di andarmene. Solo che neanche io riuscivo a trovare qualcosa di non irritante da dire. E non potevamo certo restarcene lì, entrambi, con la voglia di parlare e, nello stesso tempo, incapaci perfino di guardarci negli occhi.
Mi chinai, così, per prendere quell'assegno. Sì, diceva 5 mila dollari e portava la firma di Joseph Sanders III. Era già asciutto. Lo piegai con cura e lo misi in tasca, mentre mi alzavo e mi incamminavo verso la porta.
Rimasi là, con la porta semi aperta. Raccolsi il coraggio necessario per guardarlo in faccia e dirgli: «Grazie papà!».

Continua...

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