01.

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E ognuno è perfetto, uguale è il colore
Evviva i pazzi che hanno capito cos'è l'amore
È tutto un fumetto di strane parole che io non ho letto

-Quando i bambini fanno oh, Povia

Non ci sono mai andato troppo d'accordo, io, coi suoi genitori. Ogni volta che entravo in casa sua, la mamma non perdeva occasione per dirmi che mi vestivo in modo strano, e ogni volta che accompagnava Tiziano a casa mia si fermava con mio padre per esternargli le sue preoccupazioni riguardo alla scelta del mio look.

Sono sempre stato un po' fuori dalle righe, in effetti, ma non ho mai sopportato le persone che giudicano solo dall'abbigliamento che si sceglie di indossare.

Alle elementari avevo già scoperto la passione per il disegno. Stavo ore e ore in camera, sdraiato sul letto, con un carboncino tra le mani e un album di fogli vergini a disposizione.

Tiziano stava con me, faceva i compiti o giocava alla playstation, oppure mi guardava e chiedeva come facevo ad essere così bravo.

Non sono mai stato in grado di rispondere. Ho sempre pensato che il disegno fosse qualcosa che è nato insieme a me; matita, pennello, carboncini e simili sono una sorta di prolungamento della mia mano.

A volte mi si sedeva di fronte e chiedeva di essere ritratto, e allora mi domandavo per quale motivo pensava fosse necessario averlo a meno di un metro di distanza per poterlo fare.

Eravamo praticamente in simbiosi, il suo viso avrei saputo disegnarlo anche ad occhi chiusi. Sarei riuscito a piazzare nel punto esatto ogni singola lentiggine che aveva sul naso; sarei stato in grado di disegnare quel piccolo neo che aveva vicino all'angolo delle labbra e anche la cicatrice sulla tempia, quella di quando aveva avuto la varicella e l'avevo beccato a grattarsi come un pazzo.

Ce l'ho anch'io quella cicatrice, e anche la mia è sulla tempia sinistra. La varicella l'abbiamo avuta insieme, e quando l'ho sgridato perché sapevo che gli sarebbe rimasto il segno, ha preteso che anch'io grattassi via una crosticina, così avremmo avuto la stessa traccia nello stesso posto, e io l'ho fatto.

È che certe volte, non so come, aveva il potere di farmi fare cose alle quali non avrei nemmeno pensato, se non fosse stato per lui. Mai niente che io non volessi davvero, che sia chiaro. La bellezza di Tiziano era proprio questa: aveva la capacità di farmi capire di desiderare qualcosa senza che io ci avessi mai ragionato su.

E non mi faceva mai sentire sbagliato. Mai!

Una volta eravamo a pranzo a casa sua, i suoi genitori avevano il televisore sintonizzato sul telegiornale regionale e la reporter stava dando la notizia di un ragazzino massacrato di botte dal padre perché omosessuale.

Io e Tizio avevamo otto anni, ci guardammo in faccia e poi guardammo suo padre.

«Che vuol dire omosessuale?», chiesi.

«Sono gli uomini che stanno con altri uomini, Domenico».

«Come me e Tiziano?»

Suo padre scoppiò a ridere e scosse la testa.
«Per carità, voi due siete solo amici, per fortuna. Quelli stanno insieme come dovrebbero fare solo le mamme e i papà. Capito come?»

A dire il vero no, non avevo capito molto bene, ma annuii e domandai di nuovo:
«E non va bene?»

«Certo che no! Ascoltami bene: non farti inculcare strane idee dalla tv. Oggi stanno tutti lì a dire che è normale, che non c'è niente di male se un uomo sta con un altro uomo o una donna sta con un'altra donna.
Non ci credere! È contro natura, capisci? Come se vedessi un prete sposato con una capra! E non credere neanche a quei genitori che senti parlare nei programmi televisivi: non esiste un genitore al mondo che sarebbe orgoglioso di avere un figlio frocio, credimi. Nessuno è orgoglioso di un abominio del genere, nessuno».

Tiziano abbassò gli occhi e iniziò a giocare col ricamo della tovaglia, e io sentii salire dentro di me qualcosa di molto simile alla voglia di urlare, senza nemmeno capire il perché.

«E se uno nasce così, cosa deve fare?»

La mamma di Tizio mi guardò con un'espressone tenera in volto, come se avesse capito che io ero solo un bambino e certe cose non potevo saperle. Come se sapesse che avevo bisogno di sentire anche parole normali, dopo quelle cose brutte che era riuscito a tirare fuori Alberto, suo marito.

«Nessuno nasce così, Dome. Si sceglie di diventarlo. A volte è perché manca una guida da parte dei genitori, altre è perché non si crede abbastanza in Dio, altre ancora perché si vuole dimostrare di essere diversi da tutti. Ma nessuno nasce per davvero così, credimi», e mi scompigliò i capelli.

«Quindi se non si crede in Dio si può diventare così?»

«Esatto, e non solo: nonostante quello che dicono oggi, Dio non amerà mai nessuno che fa certe cose, ricordalo bene».

Dopo pranzo io e Tiziano andammo in camera sua e ci sdraiammo sul letto. Mi piaceva la sua stanza: i suoi genitori gli permettevano di attaccare poster e foto ai muri e guardandosi attorno si aveva l'impressione di essere direttamente nella sua vita.

C'eravamo io e lui al parco, a quattro anni. C'era lui con qualche nostro compagno di classe. C'era il disegno che gli avevo fatto per il suo compleanno, quello che doveva essere un suo ritratto e che faceva veramente schifo perché, va bene che ero portato, ma avevo pur sempre otto anni!
E poi c'era il poster degli Avengers e quello di Spiderman.

Il mio angolino preferito, però, era quello di fianco alla scrivania, dove aveva appeso la foto dei nostri occhi. Avevamo preso in prestito la vecchia Polaroid di mia mamma e ci eravamo messi sdraiati sul prato del mio giardino a fare tutte le boccacce del mondo: le linguacce, gli occhi storti, le narici allargate e le labbra arricciate.

Poi, per sbaglio, ne era venuta una bellissima: la macchina, tenuta troppo vicina, aveva inquadrato solo il mio occhio destro e il suo sinistro, e parte dei nostri nasi. In quella foto sembravamo quasi una persona sola, nata con le iridi diverse per guardare il mondo in modi differenti. Tiziano aveva voluto tenerla e l'aveva attaccata al muro, lontana da tutte le altre.

Gli piacevano i miei occhi, diceva che avevano il colore della terra e dalla terra nascono un sacco di cose, mentre dai suoi, del colore del mare, non sarebbe mai nato un fiore.

Forse ancora non lo sapeva che l'acqua genera vita.

«Tu ci credi a quello che ha detto mio papà?», mi chiese all'improvviso, dopo minuti di silenzio.

«Non molto, a dire la verità... Tu?»

Non rispose per un po', poi voltò la testa verso di me e sorrise.
«Credo che se anche uno di noi due fosse così, rimarremmo amici lo stesso».

«Scommettiamo?», domandai tendendogli la mano.

Lui l'afferrò e la strinse, poi sorrise.
«Scommettiamo».

Le Scommesse SbagliateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora