Prologo.

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"Quel mago maledetto aveva portato sulla tela le fiamme dell'inferno; nelle sue mani il pennello era diventato la bacchetta magica in grado di evocare incubi."

- Il Modello di Pickman di H. P. Lovecraft

⚠️ Attenzione, scene esplicite! ⚠️

«Il sangue dona vita e il ghiaccio coagula»

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«Il sangue dona vita e il ghiaccio coagula».

Era una litania flebile, si insinuava nelle vene fino ad avvelenare il cuore. Le sinapsi erano inebriate dal suono di parole criptiche e inquietanti al tempo stesso. Fendevano l'aria non appena uscivano da labbra rosee, contornate da una pelle candida come la neve.

Le dita di Elia si muovevano leggiadre come ali di rondini in cerca di cibo: vermi e insetti per nutrirsi di carne ancora calda, sostentamento per i loro piccoli, ciechi della crudeltà del mondo.
Il pennello danzava sulla tela, disegnava contorni di curve morbide con sfumature di rosso dalla più chiara per i punti luce, alla più scura per far risaltare le ombre. Il pulviscolo dei raggi si poggiava con dolcezza sulle guance scavate e sulle ciglia bianche, mentre le palpebre si assottigliavano per preservare la purezza di occhi concentrati sulla modella davanti a sé. Iridi isteriche si muovevano a destra e a sinistra come il pendolo impazzito di un orologio.

«Ho bisogno di più sangue». La voce roca e profonda di Elia fece sussultare la giovane rimasta immobile, nuda, nella posizione in cui l'artista le aveva ordinato. Sdraiata su un letto a baldacchino, i capelli scarlatti di Diana si diramavano come arterie di un corpo maciullato, schizzi cremisi di un suicida sparatosi in bocca, dando vita a giochi pirotecnici di liquido denso sui cuscini e sulle mura della stanza. I seni di Diana erano coperti da alcune ciocche, il ventre si alzava e si abbassava a ritmi scomposti. Erano causati dalla paura, tornata a vibrarle la pelle di brividi.

Quando i passi pesanti e cadenzati della pallida figura si avvicinavano, Diana aveva come l'impressione di sentire i diavoli camminare in una macabra parata verso la distruzione eterna. Le dita macchiate di sangue, di acrilico ricavato dalle sue vittime, imbrattavano il pavimento di gocce vermiglie.

«Cosa vuoi che faccia?» domandò la ragazza, paralizzata dall'imprevedibilità di Elia. Voleva scappare, fuggire da un pazzo che le aveva donato una seconda possibilità di esistere in un universo partecipe della disfatta dell'essere umano, dell'incontrollata violenza in cui la pace non era accettabile come compromesso. Nessuno era nato per fare del bene, ognuno aveva sempre un tornaconto e così sarebbe stato per l'eternità. Si aveva la credenza di un uomo tentato dal diavolo, da voci mefistofeliche che sibilavano nella mente. Si preferiva dare la colpa agli altri, trovare un capro espiatorio, ma il mea culpa non esisteva in alcuna forma d'arte e neanche nella realtà. I peccati facevano parte della vita, chi diceva il contrario era solo un bravo bugiardo.

Elia si sedette accanto al corpo di Diana, la osservava con estrema cura nei dettagli. Aveva rappresentato in un realismo maniacale le forme delle sue gambe, le pieghe delle anche ricoperte di morbida e soffice carne. Ne era estasiato, eccitato al solo pensiero di poterla toccare con le dita.

Passò l'indice insanguinato lungo tutto il ventre, lasciando una scia scarlatta e provocandole tremori, sussulti leggeri causati del tocco gelido dei polpastrelli.

Il volto di Elia si avvicinò a quello della modella, i capelli lunghi e sottili simili a rami colmi di neve solleticarono le gote di Diana. «Sii la mia musa» sussurrò a fior di labbra, lasciando la bocca semiaperta, per inebriarsi della bellezza disarmante di una scultura vivente. Faceva invidia anche all'Olympia di Manet.

Accarezzò il viso della ragazza, scarabocchiò segni rossi sul mento, tra le pieghe delle scapole e per finire disegnò la scia di due lacrime di sangue partendo da sotto le sclere fino ad arrivare a metà mascella. Era l'incarnazione di una dea della morte, colei che avrebbe portato distruzione e delirio nei cuori delle persone, cibandosi della materia grigia fino a eccitarsi nel momento in cui l'anima si fosse distaccata dal corpo.

Elia si alzò di scatto per prendere un secchio pieno di tempera, gli serviva più sangue per completare la sua opera.

«Rosso, rosso e ancora rosso», una voce gridava nella sua testa, assetata di colori sgargianti.

Si avvicinò al letto e inondò di liquido denso ogni centimetro dell'epidermide di Diana.

La ragazza gemette di piacere nel sentirsi intingere le membra scoperte, regalava un leggero solletico sul pube e sui seni tondi e morbidi.

Era ricoperta di sangue di vittime innocenti, di uomini, donne e bambini che avevano preso parte alla follia di un sadico pittore con la passione di creare opere d'arte e sculture oltre ogni limite dell'immaginazione umana.

«Il mio piccolo e dolce pettirosso adesso ha preso il volo. Si è intinto del sangue di Cristo e le macchie dei suoi peccati sono rimaste sul suo candido petto» proferì Elia, quasi come se stesse recitando una criptica poesia.

Scaraventò il secchio a terra e si mise a cavalcioni sopra di lei, sporcandosi la tuta da lavoro di ramificazioni vermiglie.

«Tu sarai sempre la mia rondine solitaria» sussurrò Diana, schiudendo le labbra a pochi centimetri da quelle di Elia e in una frazione di secondo si ritrovarono ad assaggiarsi a vicenda. Si mordevano, si baciavano con foga fino a perdersi in un'esistenza che conoscevano soltanto loro. Le lingue danzavano una sul corpo dell'altro, schiocchi di muscoli e pelle riempirono la stanza di lussuria e perversione.

Elia saggiava con avidità la sua opera d'arte, l'erezione nei suoi pantaloni si era fatta troppo ingombrante, le papille gustative erano coinvolte in una danza di sapori, l'amaro del sangue e il dolciastro della pelle lo rendeva schiavo di una fame impossibile da quietare.

Il suo viso bianco si colorò di sfumature di un carminio tendente al nero. Le anime dei morti urlavano, scalpitavano per essere libere, ma erano rimaste intrappolate in sculture di carne e Diana era la loro portatrice di morte. Si unirono in un amore malato, le spinte di Elia erano calibrate e decise, si rivestì interamente dei colori della sua arte, aveva superato la barriera che divideva l'artista con la sua tela. Erano diventati una cosa sola, il bianco e il rosso che si mischiavano a formare il colore dei melograni, delle albe estive e dei crepuscoli invernali. Le mani di Diana lasciarono graffi lungo la schiena di Elia, mentre soffocava sospiri e gemiti di piacere tra le labbra della candida figura davanti a sé.

Nessuno li avrebbe fermati, nemmeno le fiamme dell'inferno.

L'arte era la loro carnefice e il loro punto di congiunzione.

L'arte era la loro carnefice e il loro punto di congiunzione

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