Capitolo 2.

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"Uno può avere un focolare ardente nell'anima e tuttavia nessuno viene mai a sedervisi accanto.
I passanti vedono solo un filo di fumo che si alza dal camino e continuano per la loro strada."

- Vincent Van Gogh

Alla fine, succedeva sempre

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Alla fine, succedeva sempre.

Il respiro si faceva lento, i pensieri si ingigantivano e divoravano il cervello dall'interno. La solitudine prendeva il sopravvento, il silenzio era in ogni oggetto, in un battito di cuore, in un chicco di polvere di un timido raggio mattutino.

Erano attimi di tranquillità in una vita frenetica, ma quando i diavoli bussavano alla porta tutto diventava oscuro. Si entrava in un abbraccio caldo di un mantello nero, come se la morte volesse consolare un'anima incompresa, ma senza ucciderla. Un atto di codardia per paura di essere travolta da emozioni più affilate di una falce, più potenti del sangue e delle ossa scricchiolanti.

Diana era in quell'abbraccio. Il suo corpo era pesante, un macigno in mezzo a morbide coperte stropicciate. Guardava il vuoto, i suoi occhi erano persi da qualche parte in un ricordo felice rimasto incastrato nelle pieghe del passato.

Si ricordava sorridente, giocava con sua madre tra i campi incolti e margherite ancora fresche. La primavera riempiva l'aria di profumi inebrianti, i vestiti leggeri giocavano a farle il solletico sulle gambe e sui fianchi.

«Mamma, fammi la coroncina di fiori», le supplicava spesso per vedere le sue mani sottili e il viso assorto nel cercare di compiacere la figlia. Soprattutto nei momenti in cui gli psicofarmaci le davano la possibilità di avere cinque minuti di lucidità.

La vedeva intrecciare fili sottili, accarezzava i delicati petali biancastri come se dovessero spezzarsi da un momento all'altro. Tutto quello, però, non era altro che un sogno dimenticato, una vita non sua.

Un dolore atroce su tutto il corpo si diramò come bruciature sulla pelle, Diana era paralizzata sul suo letto, nella sua oscurità più nera. Gli occhi erano ciechi, vuoti, senza un appiglio a cui aggrapparsi a osservare lo spazio attorno a sé.

Il panico arrivava nei momenti peggiori, soprattutto quando si era vulnerabili. Esistere senza essere notati era la peggior tortura che Lucifero potesse mai creare.

La fronte era imperlata di sudore, i denti le tremavano e la mascella si contraeva fino a diventare di marmo. Dei gemiti smorzati le morivano in gola, accompagnati da lacrime salate a inumidire la fodera dei cuscini.

Donne e uomini si erano coricati sul suo letto, chi per puro piacere di un orgasmo e altri solo per avere qualcuno accanto senza sentirsi isolati dal resto del mondo. Volevano avere accanto un corpo caldo e non sentire freddo la notte, essere coccolati per mancanza di affetto.

Lacrime salate solcavano le guance piene, cercava di frenare i tremiti alle mani e su tutto il corpo. Aprì la bocca per urlare, ma le corde vocali erano paralizzate come se fossero state tranciate di netto. Il volto di una donna nel quadro di un finto Manet la osservava, la studiava con il suo sguardo assorto, come se comprendesse il dolore, ogni tormento lo aveva provato sulla sua pelle fatta di colori a olio più intensi della luce stessa. La donna nel bar delle Folies-Bergère l'aveva vista in ogni forma di espressione: la tristezza, la gioia e la rabbia avevano scalfito quella giovane ragazza nata nei bassifondi. Provava a essere qualcuno tra la massa. Essere la folla stessa.

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