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( punto di vista di: Aya )

Facemmo intrecciare i nostri mignoli e la promessa fu fatta, esattamente come dieci anni prima, solo che questa volta l'avremmo mantenuta secondo le nostre regole, secondo la visione che noi avevamo delle stelle.
D'istinto lo abbracciai, stringendolo più forte che potevo. Ormai quella domanda nella mia mente si faceva sempre più insistente, intensa, inarrestabile, era una presenza fitta come quella degli alberi in un bosco: noi che cosa siamo?
Tenevo la mia testa premuta contro il suo petto, come per farla smettere di pensare, ma poi lui mi prese i fianchi e fece sparire ogni pensiero, ogni dubbio, ogni tormento. Era sempre così, ogni volta che lui c'era.
Sussultai e i miei occhi guardarono i suoi, venendo catturati ancora una volta da quell'ipnotica alba che era il suo sguardo; l'incantesimo che riusciva a scatenare sembrava non fallire mai.
Le mie dita camminarono impazientemente lente lungo la larga e aperta strada verso il suo collo e, con una complicità degna dei più grossi segreti internazionali, le nostre labbra si unirono come fossero affamate l'una dell'altra, come se, sin dalla fine del loro primo incontro, non avessero aspettato altro che potersi finalmente ricongiungere.
Keigo aveva risposto abbondantemente alla domanda che dalla notte prima mi stava tormentando ma che nemmeno a lui avevo mai espresso ad alta voce.
Ora sapevo la verità, e non c'era alcun bisogno che ce la dicessimo per capirla.
In quel momento eravamo completamente stregati l'uno dall'altra, e mi sentii come se per quei pochi secondi fosse tutto sparito e ci fossimo solo noi, soli nell'universo, a ballare nell'infinità dello spazio. È questo ciò di cui sa l'amore, pensai, e pensai anche al fatto che, quando fuggivamo di nascosto dal padre di Keigo nel Kyūshū dieci anni prima, non avevo la più pallida idea che ci saremmo potuti trasformare in questo. Credo ancora che se mi avessero raccontato cosa sarebbe successo da lì in avanti non ci avrei minimamente creduto, eppure ero lì, davvero, e mi sentivo estremamente felice.
Saremmo potuti rimanere così per sempre, se solo non ci fosse stato Best Jeanist lì fuori ad aspettarci che avrebbe potuto tranquillamente sospettare che tra noi ci fosse qualcosa. A ripensarci, credo che sarebbe stato più strano se non si fosse accorto di nulla: ciò che c'era in fondo ai nostri sguardi quando li incrociavamo l'avrebbe potuto percepire chiunque, anche se nessuno, a dire il vero neanche noi, sarebbe riuscito a spiegarlo.
Quando ci staccammo ebbi finalmente il cuore libero dal peso del dubbio e sorrisi mentre ci affrettavamo ad uscire dall'abitazione.
Best Jeanist non disse niente, e si limitò ad alzare un sopracciglio con aria interrogativa nella direzione di Hawks. Quest'ultimo capì. "Si va in ospedale a trovare Endeavor" dichiarò, come per rispondergli.
Girò la schiena verso la strada che avremmo dovuto percorrere e si avviò, con me e Best Jeanist che lo seguivamo a ruota.
Mentre camminavamo sentii piombarmi addosso più volte l'austero sguardo dell'eroe numero 3, ma nessuna di queste osai girarmi verso di lui per verificarlo o chiedergli spiegazioni. Mi limitai a tenere lo sguardo fisso in avanti, rigida, in attesa di qualche parola di Keigo o della visione vicina dell'ospedale, che avrebbero potuto salvarmi da quella situazione tutt'altro che rilassante e piacevole.
L'edificio che cercavamo non ci mise molto a farsi notare, spiccante tra le varie case per la sua imponenza.
Entrammo e raggiungemmo la stanza dove sapevamo fosse ricoverato Endeavor. Fuori dalla porta si sentiva parlare, ed entrambi gli eroi si misero ad origliare per la curiosità. Anche se contraria, non potei fare a meno che anche solo cercare, lì dov'ero, di sentire qualcosa di quella che sembrava essere una perfetta riunione di famiglia. Pensai che poteva non essere il momento giusto per una visita esterna: lentamente la tensione che c'era nell'ambiente aveva iniziato a sciogliersi, le persone a responsabilizzarsi e il nucleo ad unirsi, ma Endeavor e Shoto rimanevano feriti, fisicamente e psicologicamente, e i problemi restavano montagne che avevano appena iniziato a scalare.
Keigo però ad un tratto abbassò la maniglia e capii tutto. Proprio perché era tutto accaduto da poco bisognava andare a parlare con loro. Proprio perché erano in difficoltà bisognava stare loro accanto il più possibile. Proprio perché non lo riguardava, Keigo sentiva di dover aiutare la loro causa. Perché non lo riguardava in prima persona ma non sopportava l'idea che qualcuno dovesse soffrire così. Perché sapeva come ci si sentisse a stare male nel luogo che prima di tutti dovrebbe trasmetterti sicurezza e calore. Per un po' l'avevo saputo anch'io, e solo il giorno prima la tensione era cresciuta talmente tanto da non avere altra scelta che sgonfiarsi e ricominciare da capo. Tutti e tre ci trovavamo sulla ripida salita che conduceva alla salvezza, e chi era a buon punto doveva aiutare chi era rimasto indietro ad attraversarla.
Ecco perché, quando Keigo aprì la porta, avanzai all'interno con più determinazione di quanta ne avessi mai avuta, e mi fermai a circa due metri dal letto per fare un inchino e dare il buon pomeriggio. "Scusateci, non potevamo non ascoltarvi..." Hawks salutò con un contatto quasi militare della mano con la testa e chiese, retoricamente: "Vi dispiace se vi accompagnamo in questa 'avventura di famiglia'?"
Shoto, Endeavor e una donna dai capelli come la neve guardavano verso di noi con gli occhi spalancati, fissi, le palpebre che sbattevano più in fretta del normale. C'erano anche altri due ragazzi nella stanza, che più che scioccati di vederci parevano confusi.
La donna si tuffò in fretta e furia in ginocchio davanti a noi, come ci stesse pregando, e supplicò: "Sono terribilmente dispiaciuta... per quello che nostro figlio vi ha fatto"
Hawks non esitò e pensò ad alleggerire la situazione con un tono allegro, innocente, scherzoso: "Oh, no no no! Non siamo qui per addolorarla!" Mentre parlava agitava le mani, sembrando quasi in imbarazzo. "Sul serio, signora, non deve affatto scusarsi!"
"Siamo solo venuti a chiedere informazioni su Dabi" spiegò Best Jeanist, mentre piegava le ginocchia per aiutare la donna, a quanto pare madre di Touya, a rialzarsi in piedi. Continuò: "Comprendere le origini del suo risentimento è indispensabile per le nostre investigazioni. Ora vorremmo sapere di più di lui stesso: come ha fatto a sopravvivere e come è diventato Dabi".
Keigo si avvicinò a Shoto, spinto da un'improvvisa curiosità. "Sai, questo non è emerso in nessuna conversazione, siccome ruotava tutto intorno a Tōya, ma..." Appoggiò l'avambraccio sulla sua spalla. "... anche la bruciatura sulla tua faccia è opera di Endeavor?"
Todoroki sembrava a disagio con l'insolita vicinanza dell'eroe, e la domanda che gli aveva fatto non fu di certo meno strana o imprevedibile.
"Uh..." Mormorò, non sapendo cosa dovesse rispondere.
"Sono stata io" lo anticipò la signora Todoroki.
Tra i membri della famiglia non ci fu scompiglio: doveva essere una cosa ben risaputa ormai, che non creava più né imbarazzo, né dolore, né rancore. Certo, non doveva essere bello da ricordare, ma l'attuale rapporto tra madre e figlio era esentato dalle sue conseguenze, e i due convivevano in pace senza malesseri.
"Capisco" rispose Keigo. Perfino il tono della sua voce lo tradì, mettendo a nudo la meraviglia e la malinconia che infestavano il suo animo e coloravano i suoi occhi.
"Shoto..." Lo chiamò allora. Lui si girò, disponibile. "Sei davvero figo."
Sfoggiava un sorriso triste, rassegnato, d'ammirazione.
Nel più giovane tra i Todoroki lo stupore era evidente. I suoi occhi si spalancarono, come le finestre di una casa in paese quando le notizie girano e se ne vogliono sapere tutti i dettagli, anche se è qualcosa di minimo.
Io misi una mano sulle spalle di Hawks e gliele accarezzai, e gli donai il più sincero sorriso che potessi fare, sperando che bastasse a fargli capire che andava tutto bene e che lui non aveva fatto nulla di male. Sapevo benissimo cosa stava pensando e non mi piaceva affatto che stimasse così poco sé stesso.
Da quando avevamo trovato la lettera a casa di sua madre si era sentito in colpa per averle girato le spalle da piccolo, per non averle mai dato una seconda opportunità, per aver rinunciato alla sua compagnia perché gli avrebbe fatto troppo male.
Mi misi in punta di piedi e sussurrai al suo orecchio: "Hai fatto più di quello che potevi fare e non hai mai smesso di volerle bene, lei questo lo sa"
Rimasi due secondi in quella posizione, sperando in una risposta, ma non la ricevetti e tornai con i piedi per terra. Sentii però una mano familiare prendere la mia e stringerla forte: "Grazie", pareva volesse dirmi.

Rewrite the stars [ Hawks/Keigo Takami × Oc ]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora