Capitolo 3

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Fu solo quando era ormai lontana che la vera domanda che avrei voluto rivolgere dopo il suo saluto cominciò a martellarmi nella testa, accompagnata da un immotivato senso di colpa per averla lasciata scappare in quel modo.
"Quando?"
Avrei voluto chiederle quello. Quando ci saremmo riviste, se davvero presto o forse avrei dovuto aspettare di raggiungere il paradiso. Ancora sconvolta com'ero dovetti guadagnarmi le facce sprezzanti delle decine di alunni che non avevo salutati per la via. I loro banali augurii di una buona giornata per accaparrarsi un sorriso di simpatia mi disgustavano.
La macchina grigia non era più accanto al cancello verde, difatti avevo passato un'ora e mezza ad aspettare che le gambe riuscissero a sostenermi e portarmi al mio piccolo appartamento.
Vivevo al secondo piano di quell'Hotel diviso in tanti bilocali con camera da letto e cucina, aggiungendo ovviamente un bagno e, per i più fortunati del terzo piano, un terrazzo ampio e arredato.
Io dovevo accontentarmi di un balconcino con una pianta grassa lasciata dai turisti dopo le loro spensierate vacanze. Le mie non lo erano state affatto, potevano anzi definirsi burrascose e aberranti. Un brutto incidente sulla mia Ford mi è costato un collare ortopedico e un gesso di due mesi al braccio che ha lasciato il segno evidente di una mancata abbronzatura, oltre che un leggero dolore.
Sfilai una canotta bianca stile uomo dalla camicia che non avevo ancora provveduto a sfilare e me ne stetti una buona mezz'ora a fumare una nuova sigaretta. Avrei dovuto smettere. Però quella volta mi pareva che il fumo grigiasto disegnasse un contorno sporco proprio accanto a me seguendo la direzione del vento troppo caldo.
La televisione rimbombava dalla cucina e solo a trasmissione inoltrata mi accorsi di un servizio del telegiornale nazionale dove coppie dello stesso sesso pronunciavano i loro voti d'amore in altri Paesi.
Omosessuali, che strana specie, peggio di me. Maschi che scheccano e schiamazzano e donne che vorrebbero somigliare ad un cane peloso. Ero davvero omofoba, a quel tempo, forse non avrei mai dovuto frequentare quello strambo psicologo da ragazza.
La telefonata di Roberto non tardò ad arrivare. La solita chiamata del pomeriggio in attesa di quell'unico week end del mese in cui poteva raggiungermi. Era appena la seconda di una lunga serie e già sentivo la sua mancanza come un macigno, accentuata dalla voglia di rivedere quella donna affascinante il prima possibile e dalla paura di non riuscire a ritrovarla se non nei miei sogni.
Passai il resto del pomeriggio a completare alcune pratiche per la scuola al computer finché gli occhi non cedettero alla luce accecante del display facendomi cadere in una sequenza di incubi: coppie gay in piazza per fumare sigarette lunghissime senza una fine; spade intrecciate in aria impugnate da donne dagli occhi ambrati; ragazzi che ridevano e additavano un punto indefinito del mio corpo rendendomi oggetto di scherno; vedevo fiori crescere e rampicanti cadere fino al mio balcone, creando giochi purpurei davanti ai miei occhi e avvertivo mescolarsi eccitazione e amarezza, disprezzo e gioia, consapevolezza e delirio. E quegli incubi erano tutti legati fra loro, seguendo il filo conduttore di uno sfondo verde e ambrato.

Non mi spaventa nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora