Capitolo 18

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Provai ad avanzare lentamente e mi stupii di non sentire l'accartocciarsi delle foglie sotto le mie scarpe. Fiancheggiai il muro ruvido e grigio fino al giaciglio di mattoni ed erba dove si era rintanata. Non poteva non essersi accorta di me, o quantomeno di qualcuno che le si stava avvicinando.
Piegai il busto sentendo i muscoli delle gambe allungarsi, poggiai le labbra sul suo orecchio, quasi avvertendo il sangue scorrere sotto il suo timpano.
-Non ho fumato.- fu la prima cosa che ritrovai sulla lingua, nonostante la mia mente fosse affollata di pensieri e frasi da dire, programmate durante la disperata ricerca di lei.
Spostò impercettibilmente il capo, riconoscendo la mia voce e, forse, il tocco delle mie labbra. Mi spostai non appena vidi le sue mani toccare il pavimento e premere per alzare quel corpo triste lasciato abbandonato sulle foglie. In un gesto elegante, la sua figura snella fu a pochi centimetri da me. La guardai dall'alto, sperando che la differenza di statura non la intimorisse: sembrava un cucciolo spaventato e non sapevo bene cosa avrei dovuto fare in quel momento.
Poi schiuse i suoi occhi scuri a me, e il sole li irradiò dei soliti e perfetti riflessi d'ambra. Il languido strato di lacrime trattenute abbandonò quei due specchi d'emozione e colò via, mentre le sue labbra sussurrarono l'ultima frase prima del nuovo e consapevole peccato.
-Neanch'io!-
Fu un bacio dolce, forse non migliore del primo, ma di eguale intensità, dove l'unico liquido che bagnava le nostre bocche non era la pioggia, ma il nostro pianto. Socchiuse le due linee rosa che mi impedivano di avanzare e portò la sua lingua a contatto con le mie labbra, regalandomi un inaspettato piacere mai provato prima.
Dimenticando completamente la mia relazione fino a quel momento stabile, mi gettai fra le sue braccia e la strinsi a me, in quell'angolo di mondo dove nessuno ci avrebbe mai visto, dove finalmente mi sentivo felice.
Rimanemmo là per interminabili minuti, ad aspettare che la saliva corrodesse le labbra e le braccia si stancassero di stringersi e allungarsi attorno ai nostri corpi. Quando ci allontanammo l'una dall'altra, la vidi sorridere, e mi beai di quelle due dolci rughe ai lati della bocca. Le tesi la mano e lei l'afferrò un'ultima volta prima del suono della campanella. Tornammo all'entrata dell'edificio senza fretta: qualsiasi ritardo sarebbe stato giustificato per lei. Eppure, varcando la soglia d'ingresso, sentii la mente annebbiarsi di strane paure che non facevano altro che ricordarmi quale follia stessi vivendo, il prezzo che avrei pagato per questo peccato.
La lasciai andare alzando appena la mano, e lei corse verso la sua classe. Avrei dato tutto per essere presente ad una sua lezione, gioire della sua bravura e del rispetto che aveva estorto a quegli sgrammaticati alunni. Ne avrei parlato col preside, magari per un progetto di cooperazione per le classi che avrebbero affrontato gli esami a fine anno, forse un dibattito fra terze, ma ci sarei riuscita, l'avrei guardata fronteggiare tante piccole pesti e domarle col suo tono duro, che solo per me diventava il più dolce fra quelli esistenti.

Non mi spaventa nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora