«È pronta per iniziare, signora Park?»
Vorrei tanto rispondere che non lo sono affatto. Non sono pronta a raccontare la mia storia davanti a una telecamera, consapevole che milioni di persone ascolteranno tutto ciò che ho da dire, ma so che è la cosa giusta da fare.
«Sì, sono pronta.»
Porto le mani al grembo in un istintivo gesto di protezione. Mi sento esposta e vulnerabile sotto lo sguardo attento degli sconosciuti che mi circondano. Luci, telecamere e microfoni incombono su di me, pronti a registrare ogni mio gesto e ogni mia parola. È la prima volta che così tante persone sono interessate a ciò che ho da dire, è una sensazione completamente nuova per me. Devo ammettere che sono un po' spaventata.
Nonostante la mia vita sia radicalmente cambiata da quando sono fuggita dal mio Paese, c'è ancora una parte di me che è rimasta legata agli usi e ai costumi della mia gente. Da dove provengo io, a noi donne non è permesso esprimerci liberamente, nemmeno sulle questioni più banali. Fin da bambine, ci viene insegnato che è meglio non parlare. Veniamo cresciute per essere accondiscendenti e silenziose, due qualità indispensabili per essere delle brave mogli e delle buone madri. La mia, di madre, diceva sempre che avrei dovuto prestare attenzione alle parole, altrimenti nessun uomo mi avrebbe mai sposata. Se adesso potesse vedermi, non sono sicura di cosa direbbe, ma so cosa le farei notare io: «Guarda, madre, la tua figlia insolente ha accanto un uomo che la ama e la rispetta.»
«Io sono Park Hwayoung e sono una nordcoreana» dico appena le telecamere cominciano a registrare. «Oggi sono qui per parlarvi del mio Paese, della mia fuga e delle conseguenze che ho dovuto affrontare a causa delle mie scelte.»
Park Hwayoung non è il nome che mi è stato dato alla nascita, ma è quello che ho scelto quando sono giunta qui, in Corea del Sud. Hwa significa "fiore" e young significa "bello". È stato mio fratello a propormelo, per augurarmi di poter finalmente sbocciare dopo la tempesta di avversità che abbiamo superato insieme. Eppure, fino a poco tempo fa, avevo un nome diverso: Kim Eunjung. Ho dovuto abbandonare la mia vera identità il giorno in cui ho attraversato il fiume Yalu e sono arrivata in Cina. Mi sono lasciata alle spalle ogni cosa: il sapore dell'onban¹ che preparava mia madre, l'odore pungente del cherosene e della carbonella con cui accendevamo il fuoco, la tranquillità della mia vecchia casa a Pyongyang e un pezzo del mio cuore. Spesso la Corea del Nord mi manca, nonostante tutto.
«La ringrazio per essere qui con noi oggi. La sua testimonianza è molto importante.» Il giornalista seduto davanti a me ha un tono di voce calmo e rassicurante. «Molte persone sono interessate a saperne di più sulla Corea del Nord. Come lei sa, il governo nordcoreano non rilascia molte informazioni ai Paesi stranieri. Inoltre, quelle poche notizie che riusciamo a reperire spesso risultano non del tutto corrette o completamente sbagliate. Come rifugiata nordcoreana, credo che lei sia in grado di darci una visione più veritiera di ciò che accade nel suo Paese. La prima domanda che voglio porle è: cosa l'ha spinta a fuggire?»
«Al contrario di quello che la maggior parte delle persone potrebbero pensare, non sono scappata per cercare la libertà. Prima di fuggire, non sapevo nemmeno che esistesse la parola "libertà".» La mia voce trema mentre le lacrime minacciano di scendere lungo le mie guance. Inspiro ed espiro profondamente per tranquillizzarmi e continuare a parlare. «Sono fuggita perché volevo sopravvivere, perché niente e nessuno avrebbe potuto salvare me e la mia famiglia per la situazione in cui ci trovavamo. Restare nel nostro Paese significava essere giustiziati pubblicamente oppure morire di malattia o di stenti in prigione.»
Fino ad ora, avevo deciso di restare nell'ombra. Io ero l'unica del mio gruppo di rifugiati – o "traditori", come ci definisce il regime – a non aver raccontato la mia storia al mondo intero. Credevo che ignorando il mio passato sarei riuscita a iniziare una nuova vita e a superare il mio dolore. Ho cercato di convincere me stessa che Kim Eunjung non fosse mai esistita e io sia sempre stata Park Hwayoung, ma non ha funzionato.
Ricordo che le prime settimane trascorse a Seoul sono state terribili. I ricordi della mia vita in Corea del Nord e della mia fuga in Cina mi tormentavano tutte le notti. Mi addormentavo piangendo e mi svegliavo sudata e tremante a causa degli incubi.
Ho deciso di parlare perché è così che è iniziata la mia guarigione. Un giorno mio marito si è seduto di fronte a me, a uno dei tavolini di Starbucks, con due tazze di caffè americano tra le mani. Non riuscivo più a reprimere la mia sofferenza, quindi mi lasciai andare versando fiumi di parole. Più parlavo e più mi sentivo meglio. Quel giorno capii che l'unico modo per sopravvivere era accettare ciò che era successo e trasformarlo in qualcosa di buono per me stessa e per gli altri.
«In passato ho avuto l'opportunità di intervistare altri nordcoreani. Le loro storie, seppur diverse, avevano molti punti in comune, invece la sua è insolita. Lei è fuggita grazie all'aiuto di suo fratello e suo marito. Può raccontarci qualcosa al riguardo?»
Sorrido mentre i momenti più belli che ho vissuto in Corea del Nord riaffiorano nella mia mente. Ricordo il suono della voce profonda di mio fratello che mi leggeva Il conte di Montecristo prima di andare a dormire, con la flebile luce delle candele che illuminava appena le pagine del libro. La sua risata roca era l'unica cosa che riusciva a tirarmi su di morale dopo i severi rimproveri dei nostri genitori. Tra tutti, lui era il solo a non farmi sentire inadeguata. I suoi occhi scuri mi guardavano sempre con affetto e scrutavano con sospetto chiunque provasse ad avvicinarsi a me. Lo fecero anche quando vide colui che sarebbe diventato mio marito.
Avevo diciannove anni quando mio padre mi presentò l'uomo che avrei dovuto sposare. Non ci eravamo mai scambiati nemmeno una parola prima di allora, sapevo solo che aveva frequentato la stessa scuola di mio fratello. Quel giorno ero molto emozionata. Le nostre famiglie avevano un eccellente songbun² e lui era giovane e bello, non avrei potuto chiedere di meglio. Mio fratello, però, mi disse subito che non gli piaceva e si oppose alla nostra unione. Ovviamente, mio padre non gli diede ascolto. È buffo ripensarci adesso, dopo tutto ciò che è successo.
«È una storia molto lunga e intricata. Per favore, cercate di ascoltare con attenzione.»
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Note del capitolo
¹Onban (온반): specialità locale di Pyongyang, chiamato Pyongyang onban fuori dalla Corea del Nord. Si prepara condendo riso cotto con pollo bollito e sminuzzato, fette di funghi secchi ammollati, porri affettati e aglio. In seguito, vengono aggiunti brodo caldo, uova a fettine e una frittella di fagiolini. Si dice che il Pyongyang onban sia stato inventato per caso da una donna che ha unito gli unici ingredienti a disposizione in un piatto da portare a suo marito in prigione.
²Songbun (성분): sistema utilizzato per classificare i cittadini nordcoreani in tre classi primarie: leale, oscillante e ostile. È basato sulla posizione politica, sociale ed economica della famiglia e degli antenati. Le classi primarie sono a loro volta suddivise in oltre cinquanta sottoclassi, che influiscono sulle opportunità di istruzione e lavoro di ogni individuo. Inoltre, determinano se è idoneo a entrare a far parte del Partito dei Lavoratori di Corea. Oggi si stima che i leali siano il 30% della popolazione, gli oscillanti il 40% e gli ostili il 30%.
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La libertà di amarsi ✯ TaeKook
FanfictionA Pyongyang, nel cuore della Corea del Nord, vivono due giovani all'apparenza simili ma che in realtà non potrebbero essere più diversi. Jeon Jungkook è un cittadino modello, convinto che il suo Paese sia il migliore del mondo. Kim Taehyung, invece...