↳ Scena collettiva e personaggio distonico [introspettivo - narrativa generale]

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Le scene sature di personaggi non sono semplici. Lo dicono tutti i rumori ignorati, gli odori che sanno di nulla, le azioni descritte insieme come se si potessero aggruppare in un'unica movenza. Bisogna dosare, zoommare.

Poi c'è quel personaggio che sembra in tutto e per tutto un cliché, almeno fino a quando rivela il suo lato più intimo, che riesce a renderlo persino unico.

Non è facile, ma si può fare.


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«Non sono mai stata in un posto così...» mi avvicinai a Simone e abbassai ancora di più la voce «così silenzioso».

Lui ridacchiò. «Mi incuriosiva».

Sorrisi e presi il menù solo per rendermi conto che non capivo il contenuto di almeno la metà dei piatti, o almeno, non riuscivo a immaginarne i sapori.

«Ma hai visto quanto costano le cose?» esclamai, puntando il dito su un primo da ventotto euro.

«Fregatene, non usciamo quasi mai. Tu scegli senza guardare il prezzo».

Lo osservai leggere quel cartoncino ruvido con un'espressione serena e mi sentii in colpa. Avrei dovuto dirglielo subito o magari non dirgli nulla sin dall'inizio e fare tutto da sola. Tornai a dare un'occhiata alle portate, sospirando: anche se avessi scelto in modo differente, quel senso di colpa sarebbe stato presente. La sincerità è difficile da gestire.

Che situazione del cavolo.

Un tintinnio di bicchieri mi indusse a voltarmi.

Sul lato destro della sala c'erano tre coppie agghindate con abiti di classe che si mimetizzavano alla perfezione con l'atmosfera del ristorante, e una di queste stava brindando a chissà quale buona notizia; tutti loro davano l'impressione di essere clienti abituali.

Se lo sono davvero, alla faccia.

Al tavolo di fianco al nostro, sulla sinistra, c'era un'altra coppia che, al contrario, era più come noi: vestiti eleganti ma non ricercati, aspetto curato ma non abbastanza da nascondere la stanchezza. La donna, che avrà avuto una trentina d'anni, non sembrava felice mentre ascoltava il marito parlare: continuava a ruotare la fede sul dito e, a mano a mano, la sua espressione si faceva sempre più cupa. Avrei voluto origliare qualcosa, ma sentivo solo un borbottio.

«Hai scelto?» La voce di Simone mi riscosse.

«Mmh, sì». Indicai sul menù il piatto che avevo scelto affidandomi quasi totalmente al caso. «Prendo questa... guancia di vitello? Non lo so, si mangia pure la guancia del vitello?»

Simone scrutò la mia scelta con un sorriso divertito. «A quanto pare. Ok, dai, allora chiamo il cameriere». Nel dirlo, sollevò un braccio.

In pochi secondi si avvicinò a noi un uomo per prendere le ordinazioni, rivolgendosi prima a me. Non potei fare a meno di pensare che pareva intrappolato in un corsetto a giudicare dalla postura fin troppo impostata.

«Sì, vorrei...». Presi il foglio per cercare il piatto che avevo scelto e lo indicai. «Quest...».

Un urlo mi investì in pieno le orecchie e sussultai. Era il pianto di un bambino.

Una delle coppie più vicine a noi si voltò in nostra direzione, forse per individuare la fonte del rumore, quindi tornai a guardare i coniugi in lite e notai solo in quel momento il passeggino parcheggiato al loro fianco.

Ecco, ci mancava un neonato per suggellare la serata.

«Cinzia, sei a posto?» domandò Simone, poggiandomi una mano sul braccio.

Mi guardava con un'espressione stranita, ma sembrava intenerito.

Mi rivolsi al cameriere in attesa. «Sì, sì, a posto grazie».

Tornando a fissare lo sguardo sul passeggino, ascoltai l'ordine del mio ragazzo, che prese un taco di farro ripieno di ingredienti che davano l'impressione di cozzare tra loro.

Quando l'uomo e il sommelier - che avevo a malapena notato avvicinarsi - si furono allontanati, Simone fece cenno con la testa verso la carrozzina. «Ti ha fatto pensare a nostro figlio?»

Sorrisi.

Sì, ma non come immagini tu.

«Io continuo a pensarci da quando me l'hai detto, non riesco a smettere» esclamò lui, gli occhi lucidi di emozione.

Mi sentii sprofondare, mentre il pianto del bambino si faceva sempre più acuto.

«Pensavo quasi di tenere il test, o di fargli almeno una foto ricordo, alla fine è il primo. È importante, no? Tu che ne pensi?»

Annuii, ma il mio cervello cominciava ad andare alla deriva, distratto dalle lamentele del neonato e dal discorso che mi ero preparata, ma che non sapevo quando introdurre.

«Dovremmo anche comprare una macchina fotografica decente, voglio fare un album come i miei hanno fatto con me. Non mi piace l'idea di lasciare tutto sul cellulare, è triste».

Continuai ad annuire, sovrastata dal suo inguaribile entusiasmo, ma la testa mi pareva scoppiare per il rumore, o forse per gli ormoni, non lo capivo.

Speravo che qualcuno facesse qualcosa almeno per il bambino, che lo facesse smettere di piangere o che uscisse dalla sala con lui.

Se non lo fa qualcuno, lo faccio io.

Voltandomi appena, vidi due coppie intente a conversare, in apparenza ignare del rumore che risaltava nella sala altrimenti tranquilla, come se ci fosse lo stesso mormorio piacevole di prima.

«Non vedo l'ora di dirlo ai nostri genitori. Scommetto che mia mamma ha già fatto almeno una di quelle sue coperte di lana. Sperava che succedesse presto».

Mi sentii sprofondare.

Devo riuscire a dirglielo. Ma quel bambino...

Osservai un gruppetto di quattro persone sulla sinistra che parlava fitto fitto e notai che ogni tanto, a turno, qualcuno indicava o faceva cenni verso i coniugi in lite, che non davano l'impressione di preoccuparsi di loro figlio.

Che razza di genitori.

Un urlo più acuto dei precedenti mi indusse ad aggrottare le sopracciglia e feci per chiamare il cameriere quando lo vidi raggiungere un altro tavolo. Un uomo sulla cinquantina gli domandò qualcosa, mentre indicava i due coniugi e il loro bambino con un'espressione contrariata.

Oh bene, qualcuno fa qualcosa.

Tuttavia, anziché avvicinarsi alla coppia, l'uomo uscì dalla sala.

Un altro urlo acuto.

Sentii quasi male alle orecchie.

Simone, invece, sembrava essere immune al rumore, come se la sua testa fosse su un altro pianeta, e forse lo era, perché non notava il mio fastidio.

«Poi tu sarai un'ottima madre, ti sono sempre piaciuti i bambini». Appoggiò una mano sulla mia e il pianto mi arrivò ancora più intenso. «All'asilo sei la preferita di tutti! Questo bambino non poteva capitare in mani migl...».

«Basta!» sbottai, sentendo le tempie scoppiare. «Noi non avremo questo bambino!» Simone fece per ribattere, ma scostai la mano da sotto la sua e non gli detti il tempo. «Io non voglio avere figli, non li ho mai voluti e non li vorrò neanche con te. Mi fa schifo l'idea di affrontare una gravidanza, mi fa impressione, e non potrei mai essere una buona madre. Sono egoista, voglio sempre la porzione più abbondante per me e non voglio rinunciare a nulla per crescere un bambino. Ho già preso appuntamento per abortire».

Quando ebbi finito, mi resi conto di stare ansimando, e che Simone non era il solo a guardarmi allibito.

I coniugi in lite si erano azzittiti, nel gruppetto da quattro persone un uomo era rimasto immobilizzato con l'indice puntato a mezz'aria e, quando tornai a incrociare gli occhi del mio ragazzo, mi accorsi che persino il pianto del bambino sembrava essersi calmato.

Nascosi il viso sotto le mani e sospirai; tutto il bel discorso che mi ero preparata non era servito a nulla, dopotutto.

Nella tana dello Scorpione | racconti ©Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora