Dita sottili

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1293 – Perugia


La notte successiva suo padre non si era fermato a dormire a casa, probabilmente perché era troppo ubriaco per riuscire a uscire dalla taverna in cui aveva passato la sera. Il buio era silenzioso, senza di lui. Fin troppo, talmente tanto da mettere paura nel giovane cuore di Rinaldo.

Il ragazzino dai capelli rossi era rinchiuso nella sua stanza e cercava di addormentarsi, ma un po' per l'assenza della Luna nel cielo, un po' per quel silenzio innaturale, non riusciva a prendere sonno. Iniziò quindi a contare i respiri lenti del fratellino che, con un po' di attenzione, si riuscivano a distinguere anche dietro la sottile parete.

Uno, due, tre... ventisei, ventisette... quaranta.

Ad un tratto si interruppero di colpo e Rinaldo, con il cuore in gola, spalancò gli occhi nella notte.


Un giovane dai capelli neri e lunghi, un po' come usavano tenere i nobili a quel tempo, era seduto su una grossa sedia color mattone che, se di solito era posta di fronte al lungo tavolo che faceva mostra di sé al centro della stanza, in quel momento era schiacciata contro l'unica parete libera del locale. I suoi occhi azzurri, illuminati dalla forte luce del sole che entrava dalla finestra, erano socchiusi, le ciglia leggermente abbassate e tanto lunghe da proiettare un'ombra elegante sulle sue guance glabre e pallide. Era certamente bellissimo, tanto che più o meno ogni fanciulla di Perugia, quando lo vedeva passare, non poteva fare a meno di rivolgergli un'occhiata e una sottile risata cristallina. Ma il motivo per cui quel giovane leggiadro era premuto sullo schienale di quella grossa sedia che, a sua volta, era ripetutamente sbattuta contro il muro, non era certo per la presenza di una delle sue concittadine: un ragazzo dai capelli purpurei era sopra di lui, lo baciava, lo toccava ed entrava in lui con passione. Riusciva a malapena a trattenere i suoi gemiti e, per questo, aveva affondato i suoi denti nella spalla appuntita dell'altro.

«B... Basta, Rin. Se facciamo ancora altro rumore, la zia ci sentirà e...-» il suo discorso venne interrotto da un gemito profondo e roco che proprio non era riuscito a intrappolare fra le labbra.

«Fai silenzio, Aru» rispose l'altro che, nel frattempo, aveva staccato i denti dalla sua spalla e aveva spostato la sua bocca famelica su quella sottile dell'altro.

Il loro seme si sparse nello stesso momento, come quasi ogni volta, e Rinaldo uscì dal corpo di Arunte che, ancora con le gote arrossate, si asciugò la fronte dal sudore.

«Dobbiamo smetterla, non possiamo più farlo. È peccato, lo sai» disse Arunte, non guardando negli occhi il suo amante.

«Non mi sembra ti interessasse fino a cinque minuti fa».

Arunte quindi lo fissò con aria truce e gli sibilò: «Andremo all'Inferno, tu e io, per questo, se non ci fermiamo e pentiamo in tempo. E io vorrei almeno avere la possibilità di non patire pene per l'eternità» e, detto questo, fece per andarsene. Ma Rinaldo lo afferrò e lo costrinse a girarsi verso di lui e lo baciò. Forse era per quello che gli era successo, per il suo passato, che ormai era sicuro che sarebbe andato all'Inferno comunque, con o senza Aru. E pensare che, però, avrebbe avuto forse la possibilità di andarci con il ricordo di quegli occhi celesti nella mente, gli faceva bramare ancora di più il contatto con l'altro.

«Aru,» iniziò, quando sentì il corpo del giovane adeguarsi al suo per rispondere al suo bacio «pensi davvero che sia così sbagliato?» gli sussurrò a fior di labbra.

«Non lo penso, ma è Dio che sceglie ciò che è e ciò che non è sbagliato, non tu o io».

«Non m'ami almeno un poco?» gli chiese allora Rinaldo, dopo averlo baciato nuovamente, con più dolcezza.

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