Capitolo 7

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24 luglio: RAUL (seconda parte)

Cammino avanti e indietro sotto la casa di Silvia. Trascino la mano sui sassi freddi del muretto e poi mi ci siedo a cavalcioni. Resto in attesa, a guardare le stelle, le cime delle montagne sbucano timide sopra gli alberi e della sagoma del lago non c'è l'ombra. L'odore della terra e dei fiori si mescola con la lieve brezza che ha iniziato ad alzarsi poco dopo il tramonto. La natura tace, la luna e le lanterne appese al muro illuminano lo spiazzo.

Lo faccio spesso di osservare il cielo di notte, è rilassante perché mi fa sentire insignificante al pari di tutte le altre cose, in confronto alla grandezza dell'universo. In questo momento però il motivo è un altro, devo distrarmi dal guardare nell'unica stanza con la luce accesa – la sua camera.

I muri di pietra e il legno dei balconi e delle persiane la fanno sembrare più una baita che una casa dove le persone ci vivono tutto l'anno. Il fatto che ci siano anche poche abitazioni qui vicino mi porta a pensare a che tipo di infanzia abbia trascorso Silvia, non deve aver avuto molti amici. E mi dico che, se lei ha conosciuto la solitudine così e possibilmente averne sofferto, io ho imparato invece a mie spese che è meglio averne pochi amici che tanti e falsi.

Mi volto in direzione della porta e prego che si sbrighi perché il mio umore sta peggiorando, la mia mia mente si sta addentrando in brutti pensieri e non voglio. È stata una bella serata, molto introspettiva, ma era quello che mi ci voleva, dovevo staccare la spina e rigenerarmi: ancora una volta, Matt ha dimostrato di conoscermi fin troppo bene.

«Eccomi, Raul» urla uscendo e ravvivandomi.

Sembra anche lei più serena di prima, più ordinata. Porta una giacchetta scamosciata in parte nascosta dai lunghi capelli castani, che lascia intravedere un gufo come ciondolo e un top dello stesso colore dei soli astratti stampati sui pantaloni larghi e scuri.

«Possiamo andare.»

Mi passa accanto scomparendo dentro quello che assomiglia a un fienile. La sento trafficare rumorosamente e dopo un attimo torna da me e si posiziona alle mie spalle, annullando la distanza di sicurezza.

«Cosa fai?» balbetto.

Lei esita, «è la giacca di mio papà, farà freschetto in moto» dice mentre tasto con i polpastrelli il tessuto morbido di un pile. Nel farlo le nostre dita si sfiorano e un fastidioso sfarfallio mi riempie improvvisamente lo stomaco.

Chiudo quella parte di cervello azionata dagli ormoni quando il rombo di una moto da cross mi arriva alle orecchie. Silvia mi raggiunge e smonta dalla sella porgendomi il casco prima di andare a chiudere il portone.

«Pronto?» mi fa cenno di salire dietro di lei.

Sono leggermente in imbarazzo: pensavo mi desse un passaggio in macchina quando ho accettato, questo non me lo aspettavo. E poi trovo strano che un ragazzo salga su una moto guidata da una ragazza, di solito ad un appuntamento succede il contrario.

Infatti, il tuo non è un appuntamento.

Mi appoggio con cautela alle sue spalle e faccio leva anche su una gamba per mettermi a sedere.

«La strada della scorciatoia è dissestata, è meglio se ti aggrappi bene.»

«Se lo dici tu» bofonchio e faccio una cosa stupida, che non sarebbe necessaria. Mi avvicino finché i nostri corpi non sono appiccicati e sorrido non appena percepisco Silvia sussultare sotto le mie mani abbracciate intorno alla sua vita.

Sento la sua pelle calda lasciata scoperta dal top corto realizzato all'uncinetto, il suo odore di sapone si mischia con quello fresco e selvatico del bosco.

Un odore che non dimenticherò.

Dà un po' di gas, «ci sei?» mi chiede sistemandosi un'ultima volta, le sue spalle minute premute contro il mio petto, i suoi capelli mi solleticano il collo e il loro profumo di rosa mi riempie le narici e mi ubriaca.

«Ci sono.»

I fari gialli diffondono la loro luce sullo sterrato disseminato di buche e pietre, gli alberi ci sfilano accanto creando ombre deformate e inquietanti prima di arrivare in città. L'aria tiepida ci viene incontro e una ciocca dei capelli di Silvia svolazza libera, le mie mani sono salde sulla sua pancia. La moto da cross scorrazza veloce tra le vie del centro storico, sicura della meta, il rombo del motore satura la notte fino a svoltare in quella famigliare dove si trova l'hotel. Silvia si ferma a pochi passi dall'entrata e spegne il motore.

«Bene, sei giunto a destinazione» si volta leggermente e con la coda dell'occhio fissa le mie mani ancora intorno a lei.

«Sano e salvo» dico mentre scavallo e rilascio un sospiro di sollievo.

«Non dire così, ho preso solo qualche buca» ridacchia ironica. Ripensa sicuramente al momento in cui ha sorpassato un canale di scolo con troppa velocità e allora io per evitare di scivolare giù, l'ho stretta con più forza.

La sento imprecare sottovoce quando le restituisco il caso e il pile.

«Tutto ok?»

«Uff, mi si è incastrato il laccetto del casco.» Arrossisce e stavolta sono io a sorridere. «Vorrà dire che lo terrò.»

Però io voglio guardare i suoi occhi verdi, alla luce dei lampioni, non mi va di salutare un pezzo di plastica nera. Perché è vero che devo lasciarla andare ma da qualche parte nel buio del petto, l'idea che questa notte con lei stia per finire, mi fa bruciare il sangue.

«Fammi vedere» mi avvicino pericolosamente a lei e le mie dita corrono sulle spalle a spostarle i capelli indietro, mentre mi piego per riuscire a vedere il problema. Quando riesco a sfilarglielo, i nostri volti sono così vicini che avverto il suo respiro sulle mie labbra, il suo battito infuriare impazzito, il mio pure. Ci guardiamo.

Silvia deglutisce allontanandosi leggermente da me, con gli occhi però che suggeriscono tutt'altro e più volte indugiano sulla mia bocca. E io non la mollo, la tengo per i polsi appoggiati sul manubrio della moto che ci divide.

Non capisco l'effetto che mi fai, ti conosco appena eppure mi stai già facendo perdere il controllo. Odo le voci nella mia testa e mi dicono che è una cazzata, che non posso baciarti e poi andarmene sapendo che non ti rivedrò mai più. Farei del male ad entrambi e tu sei forte, anche più di me, ma non so se lo reggeresti questo. Non dopo quello che mi hai confessato.

Schiude le labbra, pochi millimetri le separano dalle mie e manca poco che io ceda, ma mi fermo e dico: «non posso.»

Le do un lungo bacio sulla guancia, lei chiude le palpebre e assapora quel momento.

Poi mi stacco, la guardo, lei mi guarda, e con gli occhi le urlo in silenzio la verità.

Vorrei rimanere qui, approfondire questa cosa che c'è tra di noi. Vorrei portarti con me in posti nuovi, lontano dal pensiero della malattia, vorrei baciarti, dirti chi sono e lasciarmi andare a quello che provo. Vorrei vivere come mi hai detto di fare tu.

E invece, mi giro e me ne vado.

Faccio qualche passo in direzione della hall ma mi volto di nuovo e le corro incontro.

«Prestami il tuo telefono.»

Mi guarda perplessa, forse credeva tornassi indietro a baciarla. Peccato che questa sia la vita reale non una favola. Una vita, tuttavia, che ha ancora il potenziale per diventare bella.

Non lascio mai il mio numero, se lo sapesse il mio manager mi ammazzerebbe. Ma confido veramente di risentirla che scopra o meno chi sono. Digito le cifre e prima di andarmene le sorrido.

«Buonanotte.»

IL SUONO DI NOI DUEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora