Capitolo VI

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Agnese andava sempre a trovarlo, era una specie di rituale: lei arrivava dopo il tramonto, quando le ferite del melograno erano come offuscate dalla luce del crepuscolo e si perdeva ad accarezzare sia la corteccia incenerita sia quella vitale  e viva che miracolosa sopravviveva accanto allo sfacelo e come sempre le solite domande le scivolavano nella mente: è così fondamentale l'irrompere della malattia in una coppia? Se suo nonno non avesse contratto il Parkinson sua nonna forse non lo avrebbe lasciato? L'amore si misura? C'è una sorta di metro che si allunga o si accorcia a seconda delle circostanze? Se lei fosse stata meno brava in latino e greco forse non avrebbe suscitato la gelosa ostilità della nonna? E ancora perché quella replica di abbandono si era riprodotta pure nella vita di Agnese? Perché la manifestazione della malattia aveva sgretolato un amore che sembrava splendido, abbagliante, imperituro? Da un giorno all'altro due amanti affiatati erano diventati due estranei e non c'era più modo di richiamare indietro quel sentimento che sembrava indissolubile.

Noemi la raggiunse in silenzio e in silenzio la abbracciò:

" Agnese cara sempre a filosofeggiare"?

La sua bella vicina di casa affettava di carezzarla con amorevoli moine ma nel frattempo stringeva con più cura e amore la sua adorata borsa Vuitton; Agnese non si faceva illusioni su quelle moine ma innegabilmente quelle smancerie le scaldavano il cuore:

" Noemi cara, con questa luce sembri ancora più bella".

Tanto bastò, Noemi irradiava superbia, contentezza, orgoglio: 

"ma che dici amore, io mi sento uno straccio oggi"!

E se anche qualcuno le aveva viste si guardò bene dall'avvicinarsi, quel capitolo si disse l'uomo era definitivamente chiuso.


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