Capitolo 2

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A minuti sarei arrivata dalla mia psicoterapeuta. Ero in terapia da tre anni ormai, e non avevo mai fatto progressi. La reputavo una cosa inutile. Mi faceva sedere sulla poltrona nella sua stanza con le pareti strapiene di attestati e diplomi e iniziava a chiedermi cose completamente a caso. Non mi sentivo mai a mio agio.
«Ciao, Diana».
«Buongiorno». Le sorrisi. Era una donna dai capelli rossicci, li portava sempre un po' spettinati. Indossava due occhiali tondi che la facevano sembrare ancora di più il perfetto stereotipo di psicologa.
«Come stai?».
«Sto.. sto bene. Scusi, ogni volta fare quelle scale è come partorire un bambino per me». Mi misi a ridere per la situazione ma allo stesso tempo cercavo di respirare più ossigeno possibile.
«Stai tranquilla. Siediti qui. Hai tutto il tempo per riprenderti». Sapevo benissimo che avevo tutto il tempo. Ogni volta era un'ora infernale.
«So che ha parlato con mia madre al telefono», le dissi.
«Sì. Volevo sapere che cosa facessi durante il giorno». In realtà, secondo me, durante il giorno non aveva un cazzo da fare. Allora si divertiva a chiamare persone facendo domande a caso di cui molto probabilmente sapeva già la risposta. Me la immaginavo come una donna zitella con la casa invasa da gatti.
«Assolutamente nulla».
«Infatti, è quello che mi ha detto. Non c'è nulla che ti piace fare?». Questa domanda non so quante volte me l'abbia già fatta. La mia risposta non cambia. Mai.
«Dottoressa, con tutto il rispetto, ma lei lo sa che ho un cancro, vero?».
«Certo che lo so. Ho anche altre persone in terapia e alcune di loro hanno un cancro. Eppure amano leggere i libri, fanno piccole passeggiate, stanno con gli amici». Peccato, che io non ero come le "altre persone".
«Non è una roba che fa per me. Sono tre anni che vengo qui e lei sa benissimo come la penso. Aspetto il giorno in cui il vento freddo mi porterà via da questa terra». Rimase allibita, come tutte le volte che glielo dico. Non so perché continui ad avere questa reazione. Dopo un po' non capisci che forse è arrivata l'ora di cambiare argomento? O forse, è arrivata l'ora di andare a studiare psicologia in un college decente?
«Comunque... hai pensato a quello di cui abbiamo discusso la scorsa settimana?».
«Sì». In realtà, non avevo pensato proprio a nulla.
«C'è qualcosa che vorresti dirmi in particolare?».
«Continuo a pensare che il cancro sia una punizione mandata dall'Universo. Che ne so, magari in una vita precedente ero una zingara che rubava». Lo pensavo veramente.
«E se invece ti fosse stato dato a te perché puoi sconfiggerlo?».
«A me? Non ho le palle di dire ad un ragazzo che mi piace ma ho la forza di sconfiggere un cancro?».
Al liceo c'era un ragazzo che frequentava il mio stesso corso di inglese. Era abbastanza carino e dalle occhiate che ci lanciavamo durante lezione pensavo che fosse una cosa reciproca. Invece, ovviamente, non lo era. In effetti, chi è che si può innamorare di una ragazza malata di cancro? Sarebbe veramente un pazzo.
Passò il resto della seduta a cercare di convincermi che la vita è bella e che ogni momento va goduto come se fosse l'ultimo, soprattutto nel mio caso. Era quasi stancante avere qualcuno che ogni volta ti dicesse le stesse identiche cose.
«Torniamo a casa Mary. Fra poco inizia la puntata di Friends. La guardiamo insieme? Ti prego, ho bisogno di riprendermi da tutto quello che la strega mia ha detto», le chiesi mentre salivo sulla sua macchina.
«Come posso dire di no a Friends? E poi, non chiamarla strega», mi rispose ridendo.
Durante il tragitto guardavo fuori dal finestrino. Mi piaceva immaginare di essere anche solo una ragazza normale che va a fare shopping con le amiche al centro commerciale o che si sbaciucchia con il fidanzato su una panchina.
«E quelli lì chi sono?», mi chiese Mary appena parcheggiò l'auto nel vialetto di casa mia.
Un furgone stracolmo di oggetti per l'arredamento era parcheggiato davanti alla casa dei miei nuovi vicini.
«Non te l'ha detto mia madre? Sono i Collins. Vengono dall'Arizona. Sono i nostri nuovi vicini di casa».
Mentre trasportavo la bombola d'ossigeno, il mio sguardo si fermò su un ragazzo dai capelli castani. Indossava una maglietta attillata da cui si potevano intravedere i muscoli e alcuni tatuaggi. Sembrava avesse più o meno la mia età.
«Ti sta scendendo la bava dalla bocca», mi disse Mary.
«È un figo, vero?». Mi misi a ridere.
Mentre entravamo in casa continuai:«Stasera dovrebbero venire dopo cena a presentarsi, da quanto ho capito. Spero non siano come i Johnson».
«Oh, lo spero anche io, cara mia. Mi hanno fatto quasi diventare matta. Mi incolpavano di calpestargli le aiuole che avevano nel giardino ogni volta che li incontravo. Io cercavo di spiegargli che in realtà era colpa del loro barboncino, ma era impossibile parlare con loro».
I Johnson erano i vicini di casa che c'erano prima. Urlavano dalla mattina alla sera. Una volta mio padre dovette chiamare la polizia per quanto baccano facevano. Poi, fortunatamente, hanno deciso di divorziare e di sparire completamente dalla California. Quando mia madre mi disse che si sarebbero trasferiti, quello, diventò il giorno più bello della mia vita. Alla fine, è stato un bene per tutti quanti.
«Vado a letto e accendo la tv. Tu intanto prepari i pop corn?», chiesi a Mary. Utilizzavo la tecnica degli occhi da cerbiatto. Funzionava sempre.
«Sì, signorina. Ai suoi ordini». E anche questa volta, faccio centro.
Mi piaceva passare del tempo con lei. Ma a volte, vedevo che si annoiava quindi mi impegnavo per essere più gentile e simpatica. In genere, non lo sono affatto con le altre persone. Preferisco essere scontrosa e maleducata per tenerli lontane da me. Non voglio che qualcuno si possa affezionare. Ma con lei dovevo e volevo comportarmi bene. Potevo essere me stessa. Mi sopportava praticamente in tutte le ore della giornata ormai da quasi cinque anni. Forse, era la mia unica amica. Anzi, lo era.

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