Capitolo 11

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Il dolore era l'unica costante.
Quello e Louis. Non sempre riusciva a metterlo a fuoco, ma sentiva il suo odore, sentiva le dita che gli toccavano la ferita, sentiva parole di cui non comprendeva il significato, di cui bastava il timbro familiare per rassicurarlo.
Una fitta più intensa delle precedenti gli straziò un corpo già allo stremo. Si inarcò nel vano tentativo di sfuggire all'agonia che gli divorava il corpo. Non importava che qualcosa gli suggerisse di raggomitolarsi e rimanere immobile, aspettando che tutto passasse.

Voleva solo la pace.

«Fermo. Così ti riaprirai la ferita.»
Quell'ordine brusco lo trafisse con la stessa intensità della stilettata al fianco.
Gemette mentre si sforzava di obbedire, di respirare tra un'ondata e l'altra di dolore. Percepì una puntura sul braccio, poi una mano si posò sulla sua, quando cercò di scavare nel materasso alla ricerca di sollievo. Mano callosa e grande, che gli trasmetteva la sicurezza di una speranza.
La strinse e, per quel poco che riusciva, se la portò al petto. Quando la sua coscienza tornò a scivolare nell'oblio, l'ultima percezione fu una carezza tra i capelli.
Riaprì gli occhi con un sussulto, per un attimo non vide nulla, solo luce accecante e lampi bianchi che nascevano dal suo fianco.

La ferita. Il sangue. La salvezza.
Sbatté le palpebre, e i contorni dell'appartamento si fecero più nitidi. Il dolore c'era ancora, ma non tanto intenso da impedirgli di pensare. Subito i suoi occhi corsero alla ricerca di Louis, proprio quando lui stava entrando nella camera portando un bicchiere.

«Ancora vivo?»
La sua voce profonda gli strappò un sorriso.

«Naturalmente.»

«Come ti senti?»
Il fianco gli pulsava a ogni respiro e probabilmente aveva in circolo ancora degli antidolorifici, perché sapeva che altrimenti il dolore sarebbe stato peggiore. La testa sembrava piena di piombo e ogni suo arto pesava tre volte più del normale. Più di ogni altra cosa, era vivo.

«Una merda. Ma almeno non mi hanno dato fuoco.»
Louis sbuffo e lo aiutò ad alzarsi a sedere, sistemando i cuscini in modo che ci potesse appoggiare la schiena.
Quando gli porse il bicchiere, Harry si rese conto di avere una sete disperata.
Bevve con un sospiro di sollievo per il piacere dell'acqua fresca che gli bagnava la gola, poi prese le pillole che Louis gli offrì senza nemmeno chiedere spiegazioni. Era così bello sapere di potersi fidare di qualcuno. Non dover tenere la guardia alzata quando non sarebbe stato comunque in grado di difendersi.

Avrebbe dovuto spaventarlo quanto stesse apprezzando quella situazione, ma in quel momento non riusciva a fare altro che crogiolarsi nella sensazione di avere chi si stava prendendo cura di lui.
Curvò le labbra, a dispetto delle fitte al fianco.
«Sta diventando un'abitudine. Tu che mi fai da dottore.»

«Anche tu che vieni ferito, e non mi piace» borbottò lui, con una nota di chiaro rimprovero.

Aveva ragione, si era mostrato ancora debole, e non contava nulla perché Louis lo aveva salvato, di nuovo.
Era come se lo avesse scelto al posto del mondo. «Vuoi dirmi che è successo? L'ultima volta che ho controllato Fischer ti teneva sul palmo della mano.»

L'imbarazzo minacciò di strisciargli sulle guance. «Ho commesso un errore.»
Gli era risultato così ovvio, quando Scars lo aveva deriso dopo avergli sparato. Un lampo di lucidità durante il dolore, che anche in quel momento si faceva strada tra gli antidolorifici e la stanchezza per portare a un'unica spiegazione.
Lo spacciatore fuori dalla chiesa, doveva essere stato lui ad avvertire il boss. E se quello spacciatore si trovava li, significava che doveva fare affari con qualcuno.
«Ho ucciso un prete. Penso che fosse nelle buste paga di Fischer. E... beh, lui mi aveva avvertito di non incasinargli gli affari.»

«E lo hai fatto lo stesso.»

Il calore che si stava propagando sul suo viso aumentò. «Fino a quel momento mi era andata bene.»

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