Capitolo 4 | Confidenze

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In poco tempo, le cose tra me e Daphne divennero più stabili, come se avessimo finalmente scovato il suolo adatto a far crescere un particolare tipo di pianta. Le parole sincere pronunciate da lei durante quel nostro primo confronto erano state, in qualche modo, le artefici di uno spiraglio nel muro che ci divideva, che gli impedirono così di svilupparsi ulteriormente.

Furono giorni, quelli che seguirono, di rinnovo, in cui piccoli cambiamenti iniziarono a rivelarsi in giro per casa. Una sorta di tepore aveva iniziato a permeare ogni angolo, trasformando l'appartamento in un luogo accogliente e affascinante. Le mensole del salotto, prima quasi spoglie, ordinate all'inverosimile, iniziarono ad arricchirsi di libri dai colori e dalle copertine accattivanti, sul divano comparve una coperta, sul tavolino giare di candele profumate. In cucina, il grande cesto posto al centro del tavolo, fino ad allora vuoto, iniziò ad ospitare frutta fresca di stagione. Assieme alla musica, che iniziò a riempire l'aria, manifestando melodie rilassanti che creavano una colonna sonora perfetta per le fredde serate invernali, Daphne iniziò a popolare più spesso le aree comuni. Terreno neutrale, le definì.

Scoprii così che l'inverno era la sua stagione preferita e che amava la neve. Pur prestando cautela nei nostri reciproci confronti, iniziammo a parlare sempre di più, arrivando a confidarci persino cose personali. Ciò, in particolare, avvenne, all'improvviso, una sera. Avevamo entrambi cenato da poco e ci eravamo sistemati in salotto, la luce soffusa proveniente dalla cucina creava un'atmosfera intima e tranquilla. Daphne era seduta a terra, sul tappeto, la schiena poggiata al divano. Una lampada illuminava il piano del tavolino, un fascicolo aperto al suo fianco. Attraverso la finestra, leggermente appannata, le ombre di grandi fiocchi di neve venivano proiettate sulla sua figura. Il suono di una chitarra, proveniente da un piccolo stereo, riecheggiava tra le mura della stanza.

Lei, a gambe incrociate, leggeva il tomo che portava in grembo. Una tazza, ancora fumante, posata sul pavimento, a poca distanza dal posto che occupava. Piccole mani correvano lungo le righe che si susseguivano sulle pagine, arricchendo l'atmosfera che era venuta a crearsi con piccoli sibili sommessi. Accomodato sul sofà, il mio corpo la sovrastava. Pur essendo alta, era abbastanza minuta, le spalle strette, i piedi piccoli e sottili.

Non so cosa mi mosse. Forse la curiosità, forse una sorta di benevolenza nei suoi confronti, o forse, semplicemente, il desiderio di conoscerla. Mi sporsi in avanti e cercai con brama i suoi occhi. Mi sentii sorridere. "Posso chiederti che lavoro fai?"

Lei alzò lentamente il viso, si girò e mi scrutò con zelo.

"Sono una traduttrice. Lavoro per piccole case editrici"

"E quello lo hai tradotto tu?" chiesi, indicando il libro sulle sue gambe.

"Esatto". Lo chiuse e ne osservò la copertina, prima di continuare: "Narra la storia di un bambino che va alla ricerca dei genitori perduti".

Carezzò con cautela il volume, spostandosi dalla superfice al dorso, negli occhi un velo di malinconia. "E' tradotto dal mandarino".

Alla mia espressione stupita, proseguì: "E' il mio primo libro. Fino a qualche mese fa traducevo soltanto singoli capitoli o, comunque, affiancavo altri traduttori nel loro lavoro. Quando l'editor me ne parlò, pensai fosse pazzo. Ero convinta di non farcela. Averlo in mano adesso, in inglese, mi sembra quasi un miracolo".

Nel conversare, le sue labbra abbozzarono un sorriso. E si capì all'istante che era soddisfatta del risultato raggiunto.

Scivolai in basso e mi sedetti sul tappeto, a pochi centimetri di distanza da lei.

"Ti racconto un aneddoto," iniziai "che riguarda me agli esordi. Avevo tredici anni e gareggiavo da poco tempo. Ero pieno di aspettativa, mi spingevo al limite ad ogni singolo allenamento. Sognavo già di diventare un campione, sai? Ma avevo una paura illogica di non farcela..."

"In quale disciplina?"

"Pattinaggio artistico, su ghiaccio".

Mi scappò una risata quando vidi la sua espressione sbalordita. "Se lo dicessi al me stesso undicenne, farebbe la tua stessa faccia!".

Poggiai la testa alla seduta del divano e fissai il soffitto: "Non posso dire di essere nato con la vocazione. Non è il classico sogno nel cassetto che si è avverato. È venuto fuori quasi come un capriccio. E dire che anche mia madre è stata pattinatrice. Iniziò tutto quando andai a vederla gareggiare a Vancouver, alle Olimpiadi invernali di alcuni anni fa. La sua performance fu portentosa. Avevo assistito già alle sue esibizioni, in passato. Ma mai prima di allora mi emozionai così tanto. La sua delicatezza, le sue movenze, la sua grazia mi sembrarono un qualcosa di talmente perfetto, talmente iconico, da risultare ineguagliabili. Mi venne voglia di superarla. Iniziai ad esercitarmi, sotto la sua supervisione, quello stesso anno. Era tra i pochi che mi sostenevano, intorno avevo quasi esclusivamente persone pronte a lasciarmi commenti negativi. Non ce la farai, è uno sport da femmine, è solo un sogno irraggiungibile. Ma strinsi i denti. Mi allenai fino allo sfinimento e i risultati arrivarono. Feci ricredere tutti e resi orgogliosa mia madre. Oggi sono tra i campioni in categoria a livello mondiale. La prima volta che strinsi in mano una coppa fu come camminare sulle nuvole..." girai il viso verso quello di Daphne "una sensazione che non dimenticherò mai".

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, a fissarci. La neve aveva iniziato a cadere a fiocchi fitti, il vento ad ululare. La musica si era fermata senza che ce ne accorgessimo.

I suoi occhi, saldi ai miei, mostravano un'attenzione che non avevo mai visto prima. Sembrava stesse riflettendo prudentemente sulle mie parole, prima di ricominciare a parlare. Mi concentrai sulle sue iridi verdi, talmente intense da farmi venir voglia di sprofondarci dentro. Spostai poi lo sguardo sulle sue labbra: rosee e piene, mi fecero venir voglia di sfiorarle.

Distolsi lo sguardo, mi alzai di scatto, e mi avvicinai alla finestra, pronunciando la prima frase che mi venne a mente: "Pensavo... deve essere un lavoro entusiasmante, il tuo".

"Lo faccio per passione. Ma porta spesso e volentieri all'isolamento. Sono sempre chiusa in casa, a tradurre e a rivedere testi. Non è esattamente emozionante"

"Se è vero che lo fai per passione, è un lavoro che ami. Non è semplice, oggi, trovare una professione che ci appaghi a pieno. Devi esserne orgogliosa".

Rimase in silenzio, soppesando per bene le parole, prima di rispondere: "Si".

Mentre riflettevamo sulle esperienze che ci avevano formato, il rumore di un tuono scoppiò lontano, destandoci. Guardai fuori dagli scuri e notai che la neve stava cadendo ancor più intensamente. Erano le prime avvisaglie di una forte tempesta.

Daphne, preoccupata, si sollevò e mi raggiunse, poggiando le mani allo stipite dell'infisso.

"Penso che dovremmo prepararci per il maltempo" dissi. "Potrebbe trattarsi di una tempesta abbastanza intensa".

Allo sciogliersi della neveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora