ᴄᴏɴᴛᴀᴛᴛᴏ

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I giorni passavano veloci in casa Sanles; Memo continuava a ignorare quello che era successo poco tempo addietro ed Hernán aveva provato a capire se fosse arrivato il momento di mostrare o meno la sua piccola creazione a Ofelia.

Soprattutto perché ormai aveva installato altoparlanti e microfoni in giro per la casa quindi, se lo avesse voluto, Memo avrebbe potuto comunicare con loro in qualsiasi momento.

Così, una sera di fine agosto, dopo aver passato ore a pulire il garage e aver spalancato le finestre per far passare un po' d'aria fresca, aveva invitato la moglie a scendere nel suo piccolo angolo di paradiso.

La coscienza artificiale creata dal signor Sanles ricordava bene quel momento. Aveva passato settimane a cercare di farsi un'idea della signora che si prendeva cura del cuore di suo padre.

L'aveva immaginata in qualsiasi modo: alta e bionda, bassa e rossa, con gli occhi scuri, con gli occhi chiari, con le lentiggini o con un neo quasi impercettibile sullo zigomo. In ognuna di queste forme la donna appariva bella come la descriveva Hernán: una bellezza alla Sandra Bullock.

Eppure, la figura che scese le scale quel pomeriggio era qualcosa di molto lontano dal modello che - senza rendersene conto - si era costruito in quell'ampio lasso di tempo.

Aveva una sottile gonna beige che scendeva leggera poco più sotto le ginocchia e una camicia bianca infilata in maniera distratta al suo interno, un bordo le usciva all'altezza del fianco sinistro.

Era a piedi nudi, notò Memo; aveva sempre visto suo padre indossare scarpe o ciabatte, ma mai lo aveva visto camminare scalzo. Forse era per lei che si era concentrato per così tanto tempo sulla pulizia?

I suoi capelli ingrigiti li portava legati in uno chignon sopra la testa, si poteva intuire senza fare sforzi da alcune ciocche che una volta dovevano essere stati molto scuri, come l'ebano. Ciononostante, quelli che stupirono Memo furono gli occhi: erano di colore diverso, uno azzurro e uno marrone. Una veloce ricerca lo informò che si trattava di eterocromia.

Ofelia era bella senza alcun dubbio, ma era quella sorta di bellezza passata; qualcosa che affascinava perché appartenente a un'altra epoca e si finiva per rimanere lì per ore, a pensare come fosse stato possibile che una volta fosse potuta esistere una cosa, o meglio, una persona così perfetta.

Il tempo, però, portava via il bello pian piano: il viso di lei era decorato da numerose rughe, e su braccia e guance, si notava già qualche macchiolina dovuta all'età.

Era molto attraente, ma Memo pensò che non potesse essere altro... forse bella lo era stata un tempo. Si soffermò, quindi, a guardare come suo padre le avesse teso la mano per aiutarla a scendere gli ultimi scalini: aveva gli occhi colmi di quelle che riconobbe essere gioia e impazienza.

«Allora, 'Nan, quale altra tua invenzione devi mostrarmi?» Il marito le sorrise con tenerezza e, sempre tenendola per mano, la fece avvicinare al bancone dov'era appoggiato Memo. Glielo indicò per farle intendere che poteva prenderlo in mano, se voleva. Così lui si sentì sollevare sempre di più dalla signora, fino a essere portato vicino a quei due pozzi di colore diverso. «Che cos'è, caro?»

«Io sono Memo.» Tre semplici parole rischiarono di far finire la breve vita di quella piccola scatoletta bianca. Con la visione datagli dai sensori, vide la terra avvicinarsi sempre di più fino ad atterrare nelle mani del padre.

«Parla?!»

«Certo che parla, tesoro, l'ho fatto apposta per tenerti compagnia quando non ci sono.» Con una mano le afferrò una ciocca di capelli sfuggita allo chignon e gliela sistemò dietro l'orecchio. Le sorrise come a rassicurarla e, con attenzione, le poggiò di nuovo Memo tra le mani, per poi incoraggiarla a riprovare. Ofelia sembrò tentennare un attimo prima di prendere di nuovo la parola. «Come hai detto che ti chiami?»

Memo - Cos'è il dolore?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora