06. Il dolore di essere sè stessi

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JULIA POV

"Sentirsi accettati significa sentirsi amati", Thomas Gordon.

Sensazione peggiore? Quando sei in camera, da sola durante la notte, mentre il tuo cuore si appesantisce sotto il tuo sguardo e non hai nessuno che riesca a tenerlo per alleviarti il dolore. Ti metti alla finestra, cerchi di prendere aria, ma sembra quasi che il mondo non ne abbia abbastanza anche per te, allora scoppi a piangere, e tremante tieni le mani al petto, pregando un Dio affinché il tuo cuore possa calmarsi.

Ogni sera era la stessa storia; riuscivo ad addormentarmi, ma venivo ripetutamente svegliata da incubi strani che si erano impossessati della mia mente, e finivo sempre per affacciarmi alla finestra tentando di calmarmi.

Presi una sigaretta e la portai tra le labbra appena accesa, assaporando il cancerogeno. Cercavo di smettere di pensare, eppure mi era impossibile, infondo mi chiedevo se la soluzione esistesse veramente.

Ricordai il funerale dei miei genitori. Loro non avevano amici, e io, in quella chiesa, ero immersa nelle mie lacrime mentre Daphne mi stringeva a sé, quasi come se in qualche modo potevo sfuggirle e lei voleva impedirmelo. La rabbia mi assalì all'istante quando il ricordo di Santos mi si piazzò davanti; mi aveva abbracciata dopo la messa... consolata, mentre sussurrava: «mi dispiace.»

'Figlio di puttana.'

Ora sapevo quanto male faceva al mondo... ai bambini, e io non mi sentivo nient'altro che sporca al ricordo delle sue mani su di me. Se fosse stato ancora vivo avrei chiesto a Matthew di concedermi di tagliargliele, di guardarlo negli occhi mentre il sangue sgorgava... avrei voluto vederlo morire, lentamente.

'Cosa mi sta succedendo?'

Io non ero questo.
La rabbia mi stava cambiando, e i pensieri erano solo il primo scalino.

Spensi la sigaretta e la gettai nel portacenere di vetro che avevo posato sul bordo, dopodiché indossai velocemente la mia vestaglia e mi recai verso la cucina. Avevo bisogno di una tisana.

Cercai ovunque, aprendo qualsiasi sportello, ma non sapevo dove cercare. Cazzo, mi sentivo così persa dentro quella struttura. Chiusi gli occhi e feci un bel respiro, cercando di mantenere la calma.

«Le tisane le trovi nel quarto sportello in alto» disse d'improvviso una voce dietro le mie spalle. Urlai, sobbalzando dallo spavento. Quando mi voltai vidi Benjamin intento a guardarmi, con un'alone violaceo che gli contornava gli occhi. Mi portai una mano al petto e ripresi a respirare. «Non volevo spaventarti.»

Sorrisi debolmente. «Tranquillo, è solo che... non mi aspettavo che qualcun'altro fosse sveglio oltre me.» Potetti capire da sola che erano molti giorni che dormiva poco, data anche la sua debolezza.

Mi sorpassò e aprì lo sportello, prendendo le tisane. Senza proferire parola iniziò a prepararle, una anche per me. Nel frattempo io mi sedetti sull'isola in mezzo alla stanza. «Come mai sei sveglia tu?» mi domandò, rompendo il silenzio.

«Incubi e brutti ricordi, tu invece?»

«Stessa cosa» rispose, con un velo di tristezza nella voce.

In quelle settimane avevo imparato a conoscere tutti loro e sapevo fosse un ragazzo di poche parole, quasi sempre sulle sue. Non sapevo se fosse perché non aveva confidenza o qualcosa lo logorava dentro, ma da quando ero arrivata lì era sempre stato così, perciò mi feci quell'immagine.

Le spalle possenti gli davano un'aria da duro, così come la mascella ben definita e i capelli spettinati, eppure in quella casa nessuno sembrava esserlo veramente. Attesi la tazza, nel mentre lo osservai con cura, cercando di capire cosa c'era che lo rendeva diverso.

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