Overture:

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Il risveglio non fu chissà quanto traumatico, avevo dimenticato ciò che successe la sera prima. Fin quando, dopo aver svolto le azioni di routine al mattino, mi dovetti vestire, mostrando a me stesso il carnefice che ero. Deluso da me stesso, feci tutto in fretta per poi correre in struttura.

«Buongiorno» dissi senza stare lì a dialogare. Non avevo voglia di interagire, volevo solo vedere Andrew, il mio collega. Lavora qui da quasi un anno ed è stato il mio compagno di vita nei mesi di prova. È l'unica persona che è riuscita a farmi aprire, a far cedere la mia corazza, la mia timidezza e soprattutto la paura del prossimo.

Bussai alla porta del suo studio e la spalancai poco dopo. 
«Andy, sei qui?» dissi sbucando la testa. La risposta, fortunatamente, non tardò ad arrivare. 
«Efrem, sì, entra pure.» disse con quella voce docile e melodiosa. Ho sempre apprezzato la sua voce, mi calmava, specialmente quando cantava, anche se lui spesso la sminuiva.

Avevo paura di farmi vedere da lui in quello stato. Avevo gli occhi stanchi ed ero davvero molto pallido; riuscivo a percepire la preoccupazione nei suoi occhi e temevo capisse che fossi ricaduto in quel circolo vizioso da cui provavo ad uscire. 
«Sono tornati gli incubi?» disse senza peli sulla lingua. Non risposi e abbassai il capo, senza fiatare.

Sospirò e, dopo avermi stretto la mano, mi strinse a sé. Ed eccolo lì, il mio rifugio. Era il mio punto di riferimento, il fratello da cui correre quando tutto stava andando a pezzi, ma anche quello a cui raccontare tutto senza sentirsi giudicati o pesanti. Era lì per piangere, ridere e festeggiare. Io mi giravo e lui c'era, così come io per lui. Meritava la pace, la felicità e tutte le cose belle che il mondo aveva da offrire.

Capendo che non avrei parlato, prese la mia mano e la strinse; con l'altra, prese il mio braccio sinistro per poi lasciare un bacio sul polso. Non gliel'avevo detto, ma a lui era bastato vedermi per capire che fosse tornato quel periodo. Una delle prime frasi che mi disse fu: 
«Sappi che non te la lascio la mano, ci rialziamo assieme, okay?» 
E lui, effettivamente, quella stretta non l'aveva mai mollata. Volevo solo poter ricambiare al meglio, perché se lo meritava.

Ci sedemmo e, con un buon caffè e una sigaretta, parlammo del più e del meno, alleggerendo l'atmosfera creata tra le quattro mura. All'orario stabilito, ci alzammo per andare a fare i corsi di musica ai piccoli.

Una volta concluse le lezioni di pianoforte, finalmente potevamo rilassarci in giardino. Asher mi venne incontro e sorrise teneramente verso Andrew, che arrossì subito dopo. Mi scoppiava il cuore di felicità quando vedevo queste piccole attenzioni che i due si scambiavano, e sperai veramente tanto che si facessero avanti al più presto.

«Piccioncini, io rientro, devo sbrigare delle cose» dissi per scapparmene e farli stare soli. Ricevetti le loro occhiatacce, ma feci finta di nulla e a passo svelto me ne andai nella stanza "gialla". Era una camera "gioiosa", proprio come il colore delle emozioni di *Inside Out*. In questa stanza potevi rivivere tutti i bei momenti con i ragazzi, c'erano foto appese ovunque.

L'occhio mi cadde proprio su una foto mia e di Jeremiah, dove ci spalmiamo la Nutella sui nasi. Più guardavo quella foto, più trovavo delle somiglianze che probabilmente vedevo solo io, perché tenevo fin troppo a quell'orsetto ricciolino. Dopo essermi fatto il giro dei ricordi, guardai l'orario e notai fosse l'ora di andarmene.

Polluce, splendi per primo!Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora