Lui c'è sempre stato

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LUI C'È SEMPRE STATO
Naira

«Naira, non potrai più trascorrere il tuo tempo con quella ragazzina» mio padre Iván pronuncia queste parole, con lo sguardo rivolto verso l'enorme finestra del suo ufficio a San José.
«Ma perché papà? Io e Jocelyn ci divertiamo tanto insieme» provo a fargli cambiare idea, per quanto una quindicenne possa riuscirci «non vuoi che io sia felice ora che la mamma non c'è più da anni e tu ti sei risposato?» una lacrima mi riga il volto a causa della sua freddezza.
Come scottato dalle mie parole ruota il busto di scatto, incrociando il proprio sguardo con il mio «non essere insistente ragazzina, vuoi che le faccia del male, per colpa tua?» ingoio rumorosamente il groppo formatomisi in gola.
Ci risiamo.
«Papà lasciala in pace» grido, avvicinandomi a lui nel tentativo di riempire il suo addome di pugni, che immediatamente vengono bloccati dalle sue mani.
«Sai benissimo che questo dipende da te, piccola» mi accarezza la guancia costringendomi a scoppiare in un pianto incontrollato «se ti allontani la lascerò vivere, altrimenti...» lascia la frase in sospeso, aprendo il primo cassetto della scrivania per mostrarmi la sua arma.

«Io ti odio» sconvolta stringo le braccia attorno al mio corpo, per proteggermi da questa ennesima delusione.
Ancora una volta mi stupisco dinanzi al suo comportamento.
La speranza di vederlo esprimere verso di me sentimenti di amore non si spegne mai e quando vengo nuovamente delusa, non faccio altro che ricordarmi che dovrei smettere di riporre in lui la mia fiducia.
Un padre non dovrebbe essere questo per la propria figlia.
Un padre dovrebbe consolare, stringere tra le proprie braccia, giocare, amare non minacciare fino a diventare causa di sofferenze.
Scuoto la testa, cercando di riprendermi velocemente per non dargli la soddisfazione di vedermi spezzata e mi accorgo che Iván sta alzando la cornetta del proprio telefono, prima di digitare un numero e prendere a parlare.
«Vienila a prendere» ringhia nervosamente, senza attendere alcuna risposta dall'altro capo.

Deve per forza essere lui.
È sempre stato lui.
Ade.

Traggo un sospiro di sollievo quando, pochi secondi dopo, sentiamo bussare alla porta.
«Buongiorno signor Idalgo» impettito e vestito di tutto punto, saluta mio padre con una riverenza, prima di rivolgere il proprio sguardo verso di me, addolcendo la sua espressione.
«Portala fuori da qui e assicurati che non veda più Jocelyn. Naira conosce perfettamente le conseguenze delle proprie azioni» ci congeda, rivolgendo nuovamente la propria attenzione a San José, ignorandoci.
Ade, coi pugni chiusi e le nocche bianche a causa della necessità di trattenere la propria rabbia, mi si avvicina «principessa che ne diresti se andassimo a prendere un gelato?» mi asciuga la lacrima sfuggita al mio controllo prima di condurmi fuori dall'ufficio.

Mi sveglio, sul divano del salotto, con la fronte imperlata di sudore e il battito che mi rimbomba nelle orecchie.
Come avevo potuto dimenticare Jocelyn?
La prima, vera, amica che io abbia mai avuto il cui nome, per una serie di scelte sbagliate, avrebbe potuto entrare a far parte della lista di vittime mietute da Iván Idalgo: essere spregevole, il cui controllo su quanti lavorassero e collaborassero per e con lui è sempre stato totalizzante.
Dopo anni di violenza e ingiustizie è arrivato persino a ridurre la sua unica figlia alla stregua di queste persone, trattandola con la stessa sufficienza con cui si rivolgeva loro.
Una lacrima scorre, solitaria, sul mio volto al ricordo dell'ingenuità di quella ragazzina che, a quindici anni, ogni giorno sperava e pregava ancora di essere amata dal proprio padre.

Mordo il labbro inferiore, ancora sofferente per quanto accaduto, e rivolgo lo sguardo verso l'esterno.
La luce del sole filtra dalle enormi vetrate illuminando il mare che, agitato dal leggero venticello, si muove incapace di trovare finalmente un po' di pace.
In quel momento, come un fulmine a ciel sereno, una consapevolezza si fa spazio nel mio petto rendendomi ancora più agitata: Ade è sempre stato accanto a me.

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