Non avrebbe visto Napoli per un bel po' di tempo, almeno per altri due anni. Questo era ciò che passava per la testa di Mimmo Bruni, un ragazzo di diciotto anni che stava dicendo addio a quella che, per tutta la vita, aveva considerato casa sua.
In quel momento si trovava in una macchina blu notte che si allontanava dal carcere minorile da cui lo stavano trasferendo. Il magistrato aveva deciso che gli ultimi anni di reclusione li avrebbe passati a Roma, questo perché un suo cugino, che non aveva mai visto in vita sua, ma che sua madre aveva assicurato che fosse "nu' bravo uaglione" scrivendoglielo in una lettera, aveva fatto pressione per far sì che fosse trasferito al carcere di Roma, che si sarebbe preso lui la responsabilità della semi-libertà, se gliel'avessero concessa.
Ovviamente Mimmo aveva sbuffato e alzato gli occhi al cielo al pensiero di dover incontrare questo cugino, ma nel profondo lo ringraziò perché non vedeva l'ora di andarsene da quel postaccio che era stato Nisida.
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La vita fa schifo. Questa era l'unica cosa certa per Simone Balestra. Non gliene era andata una giusta da quando era nato. Non che ricordi molto della sua infanzia, anzi, aveva addirittura rimosso di aver avuto un fratello gemello, talmente tanto forte era stato il trauma. L'unica cosa che ricordava, da quando aveva solo tre anni era che, ad ogni compleanno, sua madre piangeva o tratteneva le lacrime, anche se Simone se ne accorgeva e se ne preoccupava; Suo padre cercava sempre un modo per distogliere l'attenzione dalla moglie che, dopo aver acceso le candeline, correva via con la mano davanti alla bocca.
Con il tempo il compleanno di Simone divenne quasi come un processo meccanico. La nonna Virginia faceva la torta, si riunivano al tavolo, solo loro quattro, Simone soffiava sulle candeline mentre sua nonna intonava piano la canzoncina di Buon Compleanno, e suo padre a tratti si univa perché forse pensava di offendere la moglie, perché vicino a quel 'tanti auguri a Simone' mancava un Jacopo. Poi apriva i due regali che gli facevano ogni anno e poi era tutto finito. Non c'era l'atmosfera che vedeva alle feste degli amichetti. Simone non ebbe una festa con gli amichetti dai 7 anni in su.
Così un giorno smise proprio di festeggiarlo.
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Mimmo seguì la guardia che lo stava scortando alla sua cella. Scoprì di condividerla con un criminale che gestiva diversi giri di soldi e droga. Non era il primo che vedeva, a Nisida praticamente tutti avevano a che fare con droga e avevano ucciso. Lui non c'entrava nulla con gente del genere. Aveva tentato una rapina, armato sì, ma non voleva far male a nessuno. Invece quelle persone avrebbero fatto di tutto.
Una volta, appena fu portato a Nisida, gli venne consigliato di farsi amico qualcuno di forte, così che avrebbe avuto protezione. La prigione non era per nulla un bel posto e la presenza delle guardie non gli dava sicurezza. Anzi, alcune di loro erano addirittura corrotte dagli stessi criminali che dovevano controllare.
Così Mimmo decise di giurare fedeltà a Molosso, in quel modo nessuno gli avrebbe dato fastidio. "Allora, Mimmo, mi pari nu' tipo tosto... hai mai ucciso qualcuno?" gli chiese l'uomo, appoggiando la mano dietro la nuca del ragazzo e passando piano le dita tra i capelli, che dietro erano leggermente più lunghi.
"No..." rispose, cercando di rimanere fermo sia nella postura che nello sguardo. Non voleva fargli capire che in realtà, dentro di lui, teneva paura.
"Ah, allora abbiamo un santo qua dentro..." rise l'uomo, dandogli ora una pacca sulla testa, e Mimmo chiuse gli occhi per un attimo, per poi tornare a guardarlo.
Molosso prese una sigaretta e gliela passò. Mimmo non poteva certo rifiutare, non lo aveva mai fatto perché, rifiutare, voleva dire mancare di rispetto. Poi era solo una sigaretta. A Nisida era stato costretto a fare cose di cui ancora si vergognava solo al pensiero. Sperò che quest'uomo non gli chiedesse mai altro tipo di favore se non di procurargli altre sigarette, o un po' di droga.