In Due Minuti

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"Ti vorrei, ti vorrei
rincorrere per strada
per urlarti addosso o
per abbracciarti
ma ora
non ci riesco"

Mengoni

Dio, quell'uomo mi farà uscire pazzo.

Non credo di resistere ancora a lungo dopo quel bacio e dopo stasera. Non credo di poter andarmene senza averlo visto, toccato e, se possibile, baciato di nuovo.

Per questo sono qui, dove non dovrei essere, in cerca dei suoi occhi. Vengo riconosciuto da qualcuno che esclama il mio nome ma non mi fermo, come faccio sempre.

Ho questioni più importanti, in questo momento. In primis, ho bisogno di vederlo.

Quando sono davanti al suo camerino, però, mi blocco. Possibile che tutto il coraggio sia svanuto nel nulla? Fisso intontito il foglio appeso alla porta con scritto "Mamhood" fino a quando non colgo una voce all'interno della stanza.

"Parlo di quello che prova lui! Io lo vedo. Tutti lo vedono. Apri gli occhi e guardalo anche tu!"

Avvicino l'orecchio alla porta, per riuscire a sentire meglio. Sí, posso sembrare un maniaco, ma sono fin troppo curioso.

"Non mi interessa di quello che prova lui. Quando stavo soffrendo come un cane, lui c'era? Ha mai chiamato? Si è mai fatto vedere? No!"

Il respiro mi si mozza in gola e a stento riesco a riprendere la concentrazione. Mi sento una merda. Mi sono sentito per anni una merda e vorrei solo entrare lí dentro e chiedergli scusa.

Scusa per tutto quello che non sono riuscito a dire.

Ma poi? Poi me ne andrei, di nuovo e lui soffrirebbe ancora, forse di più.

Solo con la musica ho imparato a colmare questa mia lacuna. Ma forse lui non sapeva che le mie parole erano rivolte a lui. Che l'anno scorso, ho vinto con lui.

Che ero troppo egoista per lasciarlo andare e ho deciso di portarlo con me ovunque, legato al cuore.

Nella stanza cala il silenzio e prima che possa accorgermene la porta si spalanca. Emma mi nota subito e, con mia grande sorpresa, mi fa un cenno di entrare nel camerino.

Entro piano e mi richiudo la porta alle spalle. Ale è in piedi, voltato di schiena e non si muove, se non per le spalle che vanno su e giù a ritmo dei suoi respiri.

Mi prendo un minuto per osservarlo, assaporarne la figura. È sempre più bello. La maglia nera gli lascia scoperta la spalla e i pantaloni gli segnano il punto vita alla perfezione. Le braccia toniche sono dritte lungo il corpo e le dita della mano destra si muovono compulisvamente, picchiettando sul tesuto dei pantaloni.

Dio, è veramente... troppo.

Faccio un passo avanti avvicinandomi a lui, che come attirato dalla mia presenza, si volta subito. Noto immediatamente i suoi occhi arrossati e in un secondo sono davanti a lui.

«Hai pianto?».
«Cosa ci fai qui?» chiede invece lui, che nonostante tutto, non si allontana da me.

«Rispondi alla mia domanda».
«Non ti interessa».
«Se non mi interessasse non te l'avrei chiesto».

Sbuffa, alzando gli occhi al cielo. Sorrido a quella sua piccola reazione ma torno subito serio. Non voglio che pianga, mai, nè per me nè per nessun altro.

«Gli occhi tristi non ti si addicono» sussurro, sfiorandogli la guancia con i polpastrelli. Rabbrividisce sotto il mio tocco e sembra quasi avvicinarsi.

«Ah, no? E tu che ne sai?» borbotta.
«Perchè devi essere felice, Ale» ribatto. Io lo conosco, probabilmente meglio di chiunque altro. La tristezza non gli sta bene addosso.

«Marco».
«Alessandro».

Mi sfiora il petto con una mano e non capisco se voglia allontanarmi o farmi più vicino. In ogni caso, farò quello che vuole lui.

Gli accarezzo la guancia e mi avvicino sempre di più. No, non vuole che mi allontani: ha solo troppa paura di quello che potrebbe provare se mi avvicinassi.

«Perchè sei venuto qui?» chiede, socchiudendo gli occhi. Sta analizzando la situazione, per capire quanto può lasciarsi andare. Questa cosa mi ferisce un pò: con me può essere sempre sè stesso senza filtri, e dovrebbe saperlo.

«Sei bellissimo stasera», cerco di sviare la domanda perche veramente non saprei cosa dire.
«Perchè ignori sempre le mie domande?»
«Perchè ne fai sempre cosí tante?».

Ridacchia e io gli bacio la guancia. È un contatto delicato, semplice e innocente. Puro. Eppure lui arrossisce e diventa rosso e non riesco a smettere di ammirarlo.

«Volevo chiederti scusa».
«Per cosa? Per avermi baciato senza il mio permesso?» chiede, facendo un passo indietro e incrociando le mani sul petto. Le labbra si piegano all'ingiù, in un broncio veramente troppo adorabile.

«Non ti è piaciuto?» sghignazzo.
Lui scuote la testa ma più per esasperazione che per altro.
«Marco», mi ammonisce.

«Per tutto: per averti fatto soffrire, in primis. Per essermene andato. Per averti causato queste stupide lacrime che odio vedere sul tuo viso. Mi dispiace, Ale. Mi dispiace veramente tanto».

Vorrei poter dire altro, ma non riesco. Come sempre rimango bloccato. Giuro che in questo momento mi prenderei a schiaffi.

«Sei arrivato tardi». Sospiro, perchè so che è vero.
«Avrei voluto chiamarti», sussurro. Quando i suoi occhi si splancano leggermente, capisco che ha afferrata cosa gli voglio dire.

«Era per me? La canzone, intendo?».
Inclino di lato la testa.
«Pensavo l'avessi capito».
«No, io... non ci avevo mai pensato» borbotta e, forse inconsciamente o forse no, fa un passo verso di me.

«Volevo vederti prima di andarmene», ammetto. «Volevo vederti un ultimo volta prima di uscire definitivamente dalla tua vita».

Di nuovo, porto la mia mano sulla sua guancia che è fredda sotto al mio tocco. Si abbandona alle mie carezze e si appoggia al mio palmo, chiudendo gli occhi.

In questo momento sembra l'Alessandro che conosco io, quello tranquillo e silenzioso, il bambino ferito dalla vita che ha imparato ad... amare.

«Vorrei poterti dire quello che vuoi sentirti dire ma...». Lo zittisco prima che anche possa pensarci.
«Non mi devi niente, Ale. È colpa mia».

Perchè lo è veramente. Ho avuto paura di quello che stavo provando e ho deciso di scappare. Ho avuto paura di ferirlo e alla fine, l'ho fatto soffrire più di quanto avessi mai potuto immaginare.

Non c'e bisogno che dica niente, perchè so cosa sifnifica non riuscire a esprimersi al meglio.

«Addio, Ale». Ci guardiamo negli occhi un ultima volta prima che stacchi la mano dalla sua guancia e mi volti, uscendo dalla stanza.

Il suo flebile sussurro mi raggiunge prima che varchi la soglia del camerino e, nonostante mi faccia ancora battere forte il cuore, so che questa è veramente la fine.

«Addio», dice. Mi volto un ultima volta, ne assaporo la figura, gli occhi, le labbra. E poi chiudo la porta.

Se son rose, fioriranno. Le nostre erano già appassite in partenza.

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