Sfiorare la sua gamba attraverso le calze era sempre stato un gesto di routine. Mai, prima di allora, sistemare il gambaletto ben teso fino al cavo popliteo aveva rappresentato qualcosa di proibito o di disagevole, ma quella sera sì. Da qualche giorno era tutto divenuto complicato nelle quattro strettissime mura di quel camerino.
La calza era pronta, l'elastico del pantalone fu sapientemente fatto scendere fino a metà del polpaccio in modo che tenesse ben fermo il calzino. Fu il momento della scarpa: un antico calzare di pelle non troppo lucida, per non dare fastidio all'estetica a causa del riflesso dei fari, con lacci finissimi e tacchetto insonorizzato da un sottile tassello di gomma, che non amplificasse i rumori dei passi sul palcoscenico.
Fu a quel punto che sollevò lo sguardo e incrociò quello di lui, fisso.
Si alzò in piedi e, proprio nel momento in cui lui fece per prendere fiato e dire qualcosa, lo interruppe.
«Non dire niente. È una storia vecchia come il mondo. Come il mondo del teatro»
«Ma quello che c'è stato...»
«Non accadrà di nuovo». Disse con risolutezza. «E ora concentrati, torno più tardi»
Fece per andarsene, senza dire altro, senza aggiungere orpelli, giustificazioni, parole e filosofie che potessero rendere, arbitrariamente, più semplice o meno digeribile la situazione.
Ma quando arrivò alla porta si sentì chiamare.
«Il cappello». Sembrava arrabbiato, o serio, non seppe dirlo, ma voltò lo sguardo alla propria sinistra e vide ciò che lui richiedeva: un morbido cappello di foggia antica era sistemato su una colonnina accanto alla porta, si chiese come mai un parallelepipedo di legno laccato nero opaco fosse stato sistemato proprio lì, senza una reale utilità, a occupare il già ridotto spazio a disposizione per tutti i gesti di vestizione e di preparazione necessari a un attore. A ogni modo, prese il copricapo, si voltò e compì quei pochi passi per ritornare verso di lui.
«Questo ha bisogno di essere fissato con delle mollette. Ci penso io»
Così fu nuovamente a scarsissimi centimetri da lui. Il suo petto quasi gli strusciava il viso, Vincenzo restava immobile, preda di ricordi sublimi e dolorosi insieme, mentre gli veniva appuntato sulla testa il cappello in modo che potesse restare fermo nonostante tutti i gesti che da copione lo attendevano quella sera.
Si ridestò, pensando di dover fare qualcosa per ristabilire quantomeno un dialogo abituale.
«Perché hai deciso di essere un servo di scena?»
Sorrise sarcasticamente. Mentre continuava a svolgere con la sua consueta certosina attenzione il proprio lavoro, gli rispose: «Forse ti dirò una sconvolgente verità, ma non amo essere al centro dell'attenzione».
Vincenzo calò leggermente la testa, imbarazzato per aver ascoltato una risposta che era del tutto ovvia data la conoscenza che li legava, e sorrise, ma lasciò che proseguisse mentre con una pressione dell'indice sotto il mento gli comunicava di aver bisogno che stesse con la testa dritta affinché il cappello fosse ben fissato. «Ma amo profondamente il teatro, il suo odore, la paura che ti scorre nelle vene ogni volta che da un tuo gesto dipende la resa di qualcosa per cui decine di persone hanno lavorato per mesi, e per la quale non c'è diritto di replica. Amo il palcoscenico, lo spazio dietro le quinte che ti assorbe come una sorta di universo parallelo, in cui lo spazio e il tempo non rispondono alle stesse leggi che regolano la natura dalla platea in poi. Mi ricordo la prima volta che lessi la poesia di Gigi Proietti, quella in cui dice come in teatro sia tutto vero nonostante tutti sappiano che sia in gioco una grande finzione: sai, la ripeto ogni mattina davanti allo specchio quando mi preparo per venire qui, è la mia preghiera al mondo, perché non dimentichi mai la magia di questo posto»
«Hai risposto alla mia domanda?»
«Non credi?»
«Non lo so!»
«Essere servo di scena mi permette di essere qui, di vivere tutto questo distante dallo sguardo del pubblico. Mi sembra perfetto per me»
«Sei il migliore servo di scena che io abbia mai incontrato in tutta la mia vita»
«Non occorre esagerare così!»
«Non esagero»
L'accenno di rossore che ebbe in risposta fu, per Vincenzo, il segnale che poteva osare.
«Tu mi completi»
«Ti sbagli. Noi non siamo complementari, siamo semplicemente diversi. Opposti, oserei dire, e questo non ci può portare a nulla di buono, credimi. Bene, ho finito! Qui è tutto in ordine»
In un solo attimo Vincenzo ebbe il viscerale desiderio di cingere la sua stretta vita con un braccio, baciare il suo petto così vicino alla propria bocca, salire verso il collo, affondare le proprie dita nei suoi capelli, la lingua nella sua bocca, il proprio sesso nel suo... prima di essere sovrastato da questo doloroso calore decise di parlare.
«Ho voglia di baciarti adesso»
«Anche io» sorrideva mentre pronunciava quelle due parole: un sorriso di chi si sta allontanando per non fare più ritorno.
«Potrei farlo se lo decidessi» le loro bocche erano a un nonnulla una dall'altra, sentiva il suo respiro nell'aria che lui stesso respirava.
«Lo so, e so che non lo farai» di nuovo il sorriso di chi è già altrove.
«Ti amo con tutto me stesso»
«Ahahah» rise rumorosamente. «Sei un ottimo attore, Vincenzo» disse allontanandosi fisicamente da lui e accorciando le distanze dalla porta che li avrebbe separati, almeno per un po'.
«Non mi credi? Non mento»
«Vincenzo» disse guardandolo dritto negli occhi e assumendo un'espressione seria tutto d'un tratto. «Non è facile per me accettare complimenti o riconoscimenti di successi, o doni inaspettati della vita. Ma so esattamente quello che è accaduto e so che era vero. Ti credo, è per me certo che dici la verità, ma...» e allora il sorriso ricomparve «sei davvero troppo melodrammatico! E adesso esco da qui, perché mi pagano per fare in modo che tu abbia la possibilità di concentrarti sul tuo lavoro prima di entrare in scena, non per distrarti. Ti busso a cinque minuti dal sipario»
E mentre afferrava la maniglia e la spingeva verso il basso, Vincenzo gridò: «Dio, se t'amo!» e non era chiaro se stesse parlando al suo indirizzo o se stesse esercitando un passo del copione. Mentre usciva si bloccò per una minuscola frazione di secondo sulla porta, sorrise di nuovo e, senza voltarsi, uscì dal camerino chiudendone la porta dietro di sé.
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Servo di scena. Ovvero Sonetto 130
Short StorySera, teatro. Servo di scena e capocomico dividono l'angusto spazio del camerino, preparando trucco e vestiario per l'imminente messa in scena. Dopo anni di quotidiana sintonia, quella sera qualcosa inquina l'aria abitualmente rassicurante del dietr...