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CINQUE ANNI PRIMA

Lavina aveva sedici anni. Quell'anno, a scuola, aveva studiato William Shakespeare, Christopher Marlowe, John Milton: si era appassionata al Paradiso Perduto, alla battaglia a suon di versi poetici e teatrali tra i due autori elisabettiani, aveva amato Romeo e Giulietta tanto da leggerlo ogni volta nella speranza che i due amanti fossero meno impulsivi e più attenti per poter vivere il loro amore negli anni della loro maturità. Leggeva Otello con rabbia, Molto Rumore per Nulla con allegre mani nei capelli, Sogno di una Notte di Mezza Estate immaginandosi Ermia... i suoi genitori conoscevano a memoria l'opera omnia del Bardo, perché lei ne parlava in continuazione.

My mistress' eyes are nothing like the sun...

Recitava i versi mentre lavava i suoi capelli, mentre aiutava i genitori a rigovernare la cucina dopo cena, con le cuffiette alle orecchie mentre andava a scuola, fingendo di canticchiare musica contemporanea.

Nell'estate tra il terzo e il quarto anno del liceo chiese di poter essere assunta da una compagnia teatrale locale: Carlo Scossi era un impresario e regista in gamba e lungimirante, al quale non bastavano mai le mani degli inservienti per fare tutto ciò che occorreva alla buona riuscita degli spettacoli, soprattutto nella stagione estiva, in cui le repliche erano numerosissime.

Fu così che ebbe il suo primo contratto da stagista, da metà giugno al 15 settembre, giusto in tempo per la ripresa degli studi.

Vincenzo Ferro, figlio d'arte, ventun anni. L'unico di tre fratelli maschi ad essersi rifiutato di prendere parte ai pietosi reality show che davano in pasto brandelli di falsissima vita privata a un pubblico che non sapeva nemmeno la differenza tra La Locandiera e Casa di Bambola. Il figlio relativamente più povero, quello a cui non era stata riservata nessuna raccomandazione dal grande mattatore che era stato il padre: un padre che, con lui, aveva deciso di sedersi sulla sponda del fiume e osservarlo crescere, evolvere, migliorare, studiare, sudare e conquistare.

Vincenzo non desiderava altro dal genitore: il suo cognome non era solo ingombrante, ma anche pericoloso per lui. Questo tacito accordo di distanza li rendeva estremamente vicini, l'amore che li legava non era paragonabile, ahimé!, a quello che legava il grande Lorenzo agli altri figli: quando si vedevano restavano abbracciati per lunghi secondi prima di scambiarsi verbalmente un "ciao", poi sedevano l'uno accanto all'altro e si raccontavano a vicenda.

Pochi anni prima, ai suoi diciotto anni, Vincenzo si era presentato da Carlo Scossi per un'audizione: si recitava La Tempesta e serviva un nuovo Antonio, dal momento che il titolare del ruolo aveva avuto un brutto infortunio. Ma come poteva un diciottenne sbarbatello recitare una parte tanto complessa? Carlo lesse il suo scarno curriculum e lo poggiò sulla pila dei candidati da scartare, anche perché Vincenzo aveva mentito sul proprio cognome e l'impresario non aveva idea di chi avesse di fronte a sé. Sebbene avesse già deciso di non prenderlo, Carlo Scossi era un uomo buono, intelligente e saggio e non riteneva carino non ascoltare ciò che le persone avevano da dire, da comunicare, da dimostrare, e secondo lui ognuno doveva avere pari diritto a portare in scena il pezzo faticosamente preparato e lui avrebbe comunque fatto a tutti un commento quanto più costruttivo possibile.

Quando Vincenzo salì sul palcoscenico fu fatto accomodare in proscenio e gli fu chiesto cosa avesse preparato.

«Il dittatore»

«Ah, Chaplin. Prego»

«No... Rodari»

Carlo e il suo staff, un quartetto di uomini adulti e colti comodamente stravaccati sulle poltrone della sesta fila, si raddrizzarono, pensando che questo giovanotto stesse scherzando, o che fosse completamente folle o sotto effetto di sostanze, o che fosse semplicemente una enorme perdita di tempo.

Servo di scena. Ovvero Sonetto 130Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora