MIRA
«Mira, ehi? Mira, mi stai ascoltando?»
Abbandonai il paesaggio che scorreva veloce al di fuori del finestrino per concentrarmi su mia sorella.
«No, no.» Scossi la testa e le feci un cenno con la mano. «Puoi ripetere, per favore?» Parlai in tono calmo, Isa era facile da far adirare, e quando non le prestavo attenzione, il più delle volte scoppiava il finimondo. Sperai nella sua pietà, almeno per un giorno.
Sbuffò senza mai staccare le mani dal volante e tenendo lo sguardo fisso sulla grigia stradina del Maine.
Stupido stato. Da quando ero arrivata, appena due giorni prima, non faceva altro che piovere. Non che fossi una grande amante del sole, ma cavolo un minimo di vitamina D serviva a tutti.
«Ti stavo dicendo che, quando arriverai, ti smisteranno in uno dei tre club in base ai voti delle superiori e alle attitudini che dimostrerai alla Sfida.»
Incrociai le braccia al petto e mi lasciai scivolare sul sedile del passeggero, lasciando che il cruscotto mi coprisse parzialmente la vista offerta dal parabrezza.
«Lo so, me l'ha detto anche la mamma la settimana scorsa.» Non avevo nemmeno la forza di arrabbiarmi. Fino al mese prima ancora lottavo e protestavo; io non volevo e non avevo mai voluto frequentare la Wallstreet University, la migliore università del mondo per il corso di economia e di lingua. Ma non me ne poteva davvero fregare di meno.
Numeri, numeri e ancora numeri, noiose formule che servivano a predire il futuro delle vendite. Al solo pensarci, giuro, mi veniva da vomitare.
Speravo solo di essere maturata abbastanza, rispetto a qualche anno prima, dove mi ero ritrovata a frequentare un liceo che odiavo, per non scoppiare a piangere nei bagni tra una lezione e l'altra.
«Mi dispiace.» Disse Isa sospirando.
Mi sfuggì un sorriso e inclinai la testa verso di lei, ammirando la sua chioma bionda intrappolata in un'alta coda di cavallo. Se lei era il grano che fioriva nei campi a primavera, io ero il fiore del diavolo, una pianta inquietante dalla lentissima crescita; ci volevano fino a nove mesi per vedere appena un germoglio sbocciare. Quanto avrei voluto arrivasse il mio giorno per sbocciare; magari, prima o poi, sarebbe toccato anche a me.
«Grazie.» Le sussurrai. Lei mi allungò una mano - il vantaggio del cambio automatico è che non era necessario tenercela sempre attaccata - e io la strinsi.
«Andrà tutto bene, Mira. Ne sono sicura.» Mi lanciò uno sguardo di sottecchi, come se volesse rassicurarmi anche a gesti. Il suo pollice mi accarezzò le dita.
«Lo spero. Però, davvero, vorrei tanto avere anche solo un pizzico della tua forza.»
Mia sorella lasciò la presa, riportandola sul volante. Le vidi la mascella indurirsi.
«Non è forza. Non è mai stata forza. La furbizia è quello che ti serve.»
Dio, che puntigliosa. Mai sbagliare una parola con lei, mai. Altrimenti cominciava un calvario sull'importanza dei termini che non finiva più.
«Sì, intendevo furbizia.» Decisi di non protestare e di non aggiungere altro, non sarebbe servito a niente. Isa aveva frequentato la stessa università che attendeva me ma, una volta concluso il percorso di studi prescelto dai nostri meravigliosi, fantastici, super-strabilianti genitori -tra l'altro con il massimo dei voti - aveva deciso di mollare capra e cavoli e di perseguire quello che era il suo obiettivo: l'arte. Era un'amante dell'arte in tutto e per tutto; era capace di starsene per ore a fissare un quadro in totale silenzio, mentre io mi rompevo dopo cinque minuti.
Certo, ogni scelta comporta delle conseguenze, e per lei fu una delle più drastiche. Mammina e papino l'hanno butta fuori di casa senza né arte né parte. Le hanno tolto ogni cosa: il nome sul testamento, la macchina, il telefono, le carte, tutto.
E a lei non è importato nulla.
Quella non era furbizia, ma forza. Isa era libera di pensarla come voleva, ma alla fine dei conti si era ritrovata con due lauree e un nome importante nel mondo delle aste d'arte e pezzi rari per collezionisti, per non parlare degli allestimenti di opere antiche, di articoli di giornale per i musei, di consulenze per i restauri dei beni.
Isa era tenace, io ero debole. Stanca.
Lei era la sorella maggiore ribelle che nemmeno per un giorno aveva smesso di combattere. Aveva fatto il loro gioco, approfittando della superficiale buona condotta per fare richieste su richieste. Chiedeva di poter fare ore extra scuola, con un corso a pagamento che prevedeva economia a livello avanzato già al liceo, quando in realtà sfruttava quei soldi per comprarsi costosissimi manuali sull'architettura e rimanere in biblioteca a studiare.
Quando ci provai io, scoprii due cose: a mentire facevo schifo e le cinghie caricate sulla schiena facevano un male cane.
Mi ritirai su, in una posizione decente sul sedile, giusto per resistere alla tentazione di togliermi le scarpe, nonostante il freddo, e mettergliele sul cruscotto. Con i miei amici potevo farlo, con mia sorella sarebbe valso un bel volo fuori dal finestrino, o un viaggio all'insegna del continuo ripetere il galateo.
Appoggiai la testa al vetro e osservai la grigia strada correre come impazzita. Le linee bianche tratteggiate della corsia a doppio senso sembravano come una sola, continua e lineare.
Le gocce di pioggia si schiantavano contro il finestrino creando una melodia che sembrava accompagnare il pianto del cielo.
Un pianto condito dal grigiore delle nubi del primo mattino.
Un mattino che avrebbe sancito l'inizio di un ulteriore percorso diabolico e preimpostato.
La natura mi accompagnava nel dolore, era quasi poetica come visione.
Gettai solo una rapida occhiata al GPS della macchina.
Venti minuti.
Mancavano solo venti minuti alla destinazione.
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Madness (Wallstreet University Vol.1)
RomanceSuperare il test d'ingresso della Wallsteet university non garantisce un posto fisso tra i suoi membri. Il giudizio della semplice commissione non basta. La Sfida iniziale, che stordisce e fa scappare da sempre coloro che ci entrano, sancisce l'ini...