Se dicessi all'uomo incravattato accanto a me che le città hanno un'anima riceverei in risposta una fragorosa risata. Se lo chiedessi a chiunque su questo treno verrei sicuro additato come svitato e visionario.
Ma sono sicuro che parlandone con te avrei ricevuto solo un sorriso di assenso, velato dalla malinconia di chi sa che le città sanno amare. Che quel volto sfregiato di vetro e cemento sa allo stesso modo essere patrigno dei suoi stessi abitanti, intossicandoli con gas letali fino a spersonalizzarli.
Della tua città ero io il corpo.
Ne hai memorizzato ogni angolo affinché potessi raccontarlo, accarezzarne ogni superficie contaminandola con la tua presenza.
Ne hai registrato ogni nome affinché potessi reclamarne il possesso, per tracciare una mappa che ti aiutasse a comprenderne la sua labirintica natura.
Questa città ti si è mostrata nella sua eterna bellezza, ti ha supplicato di decantarla come per secoli tanti altri hanno fatto con le loro agrodolci parole.
Ma questa città è culla di seduttrici rovine, di quella decadenza che sazia i poeti dannati ma della quale la gente ordinaria non comprende il piacevole dolore.
E io ho sperato che nella dannazione tu trovassi sollievo nel tufo che delimita questa casa, nelle marmoree ombre che la popolano.
Eppure anche la urbana seduzione esercita una caduca stretta sul poeta, la cui penna immortale instancabilmente cerca nuove muse per le quali valga la pena macchiare costose pergamene.
Della tua città ero io il popolo.
Ho sguinzagliato i fantasmi di antiche civiltà affinché ti raccontassero di me. Degli infiniti conflitti che ne hanno dissestato la pace, dei condottieri che l'hanno ingiuriata avviando guerre in suo nome.
Ho lasciato che mi sfidassi a duello per potermi espugnare, affinché anche tu, l'unico condottiero degno di rinominarmi con il suo nome, potessi governarmi e instaurare la pace come solo tu eri capace di fare con gli occhi.
Ma come un gagliardo gladiatore, hai sfidato le esotiche belve che per secoli hanno popolato le mie interiora senza il mio consenso. Hai lottato con leoni e tigri riversando su loro la stessa rabbia con cui nella cattività erano stati sfamati.
Di sudore misto a polvere si impastano le mani, macchiate del più dolce delitto che potessi commettere.
Hai strappato loro il cuore abbandonandolo tra ghiaia e foglie secche, ora tappeto per scarpe di curiosi esploratori, affascinati dall'efferatezza di quella rabbia. Una rabbia che martoria le mie stesse mura, rimbalzando lungo il perimetro della mia millenaria esistenza, ma che nessuno ha mai coraggio di portare via con sé alla fine del loro viaggio all'interno del mio dolore.
Della tua città ero io la luce.
Ho permesso a scottanti raggi di scendere sul mio rovinoso scheletro, affinché potessi vedere gli effetti dell'autoinflitto digiuno, reazione meccanica all'esigenza di aver la tua attenzione riversata su di me.
Ho lasciato che la modernità piantasse le sue metalliche radici nella mia antica terra, cosicché le luci colorate potessero far brillare quelle iridi scure che mi versavi addosso come distruttrice lava.
Ti ho scortato sul punto più alto della Capitale affinché potessi vederne lo scarlatto palcoscenico sotto il morente sole. Ho permesso al sangue delle celesti ferite di piombare su di me, di darmi il colorito della sofferenza, sperando tu ne riconoscessi in te l'artefice.
Ma di quel dolore tu non ne hai mai capito il senso, hai lasciato che si coagulasse fino a diventare pece, invisibile nella buia notte in cui mi hai involontariamente fatto sprofondare.
Dalla tua città ero io la fuga.
Ho creato solchi nella terra riempiendoli d'acqua, volendo creare un limite naturale per te invalicabile.
Ho reciso ogni forma di semplicità e purezza dal mio aspetto. Ho creato labirinti affinché tu potessi perderti in me. Mi sono autoinflitto crepe e buche affinché tu potessi inciamparvi, farti male e amalgamarti al dolore che si erge sulla mia città.
Ma il passo vigile ti ha sempre salvaguardato da ogni trappola che disseminavo sulla mia pelle d'asfalto, sulla quale balli e strascichi i piedi pesanti ma non cadi mai, perché hai paura che io possa inghiottirti come diaboliche sabbie mobili.
Non ho mai eretto confini o forgiato regali cancelli perché per l'eternità ho pregato che chiunque entrasse in me automaticamente maturasse l'esigenza di abbandonarmi per lasciare spazio a nuovi ospiti.
Ho riversato pioggia, nebbia e rovente scirocco tra i miei organi affinché tu cercassi riparo e, una volta arreso, scegliessi di insediarti nelle mie terre. Che ti avventurassi nell'avvio di una nuova civiltà, dedita al culto di me e te, finalmente conviventi.
Ma questa città è maledetta e destinata alla migrazione delle risorse che possono arricchirne il valore poetico e salvifico.
Non sarà mai spoglia, mai nessuno deciderà di abbandonarla definitivamente. Ma sarà sempre matrigna per chi non riesce a riconoscere in crepe e mura decadenti l'unico spiro che possa convincerli a rimanere.
Non troverai un'altra Roma, come io non potrò mai essere la Roma che sono stato per te.
Ed è strano dirlo dalla scomodamente comoda poltrona che su queste rotaie mi porta lontano da me, lontano da quello che io, incarnando questa città, ero una volta per te.
Mi chiedo spesso se un giorno, in un'altra città per caso potremo ricostruire la nostra piccola e autentica Roma.
Tuttavia, la bellezza eterna della nostra città non sarà mai imitabile, non saremo mai in grado di riprodurre quelle maestosamente intatte rovine che hanno decorato il palcoscenico della tragedia più messa in scena al mondo, quella di una patria non più fertile e disseminata di mine che costringe il migliore dei suoi abitanti all'esodo, nella speranza che possa ritornare per resuscitare la brulla terra e ripopolare le sue immortali rovine.
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miscellanea - simuel
Short Storysimone, manuel e gli infiniti universi in cui si rincorrono o meglio: raccolta di note, pensieri e poesie nati spesso nel bel mezzo della notte in preda a una crisi mistica