settima fermata

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Quando piove Roma si trasforma in un grigio inferno. Variopinte sagome di plastica si rincorrono e sorpassano con prepotenza, mentre angeli di marmo fanno da guardia a un viavai di anime indaffarate.

Mi dirigo alla solita noiosa fermata, anche oggi pregando che, per uno strano allineamento degli astri, l'autobus che mi porta a casa arrivi puntuale. O forse dovrei sperare che arrivi e basta.

Con una melodia torturata ad accarezzare i miei pensieri, mi impegno ad ammazzare il tempo immaginando i vissuti di tutte le persone che popolano la precaria pensilina sotto la quale cerco invano di ripararmi dalla pioggia.

Vedo volti di ragazzini affaticati dai pesanti zaini, e immagino la loro giornata, fatta di interrogazioni che potevano andare meglio e dediche sul diario che forse mai verranno lette ai loro destinatari.

Intravedo l'apprensione di genitori nel riparare i loro figli da questo interminabile acquazzone, gli occhi fissi sui piedini a ogni sampietrino, ognuno di essi simbolo dei passi che vorrebbero registrare della crescita dei loro piccoli.

Sguardi perplessi riflessi su grigie pozzanghere rendono Roma ancora più affollata, immersa nelle contraddizioni eterne che la distinguono da ogni altra città al mondo. Il silenzio della storia urla più forte dei rumori delle macchine in coda agli interminabili semafori. Il monotono rumore di passi sui marciapiedi si amalgama ad allegre melodie di corde.

Aspetto alla fermata, e strizzo gli occhi ogni volta che si intravede una scatola metallica bordeaux all'orizzonte.

40, non è il mio. Forse è il prossimo, cosa vuoi che siano 5 minuti di ritardo.

64, non è il mio. Accendo una sigaretta, sai com'è, ogni volta che inizi a fumare poi arriva.

23, nemmeno questo è il mio. Sfrego le mani contro la federa delle tasche dei jeans. Il vento irrompe sulla mia pelle, passando dalle maniche di questo impermeabile un po' troppo vecchio.

115, indovinato, nemmeno questo è il mio. Però mi ricorda i bei tempi della scuola, precisamente di quando la marinavamo per andare a vedere Roma dall'alto. Sembrava un paese di cartapesta, come quello dei presepi, e ci perdevamo a immaginare come fosse quell'orizzonte senza anche una sola di quelle cupole e facciate che concorrevano col Sole per la loro bellezza.

Scuoto la testa non appena un arancione 280 si fa sempre più vicino. È finalmente arrivato il mio autobus, e sento già il mio corpo abituarsi all'imminente confortevolezza di casa, la certezza che sei quasi vicino a una doccia calda e un ricercato ozio tra programmi TV trash e cibo d'asporto riscaldato.

Mi fiondo sul primo sedile vuoto e mi lascio andare su di esso, scaricandovi la tensione dell'intera giornata come se la plastica potesse fare da conduttore e portare ogni traccia di stanchezza via dal mio corpo.

Tante voci si accavallano alla soffice che canta nelle mie orecchie, e invano alzo il volume, consapevole che questa città ha il timbro vocale più invadente che ci sia. Turisti chiedono informazioni in un inglese opinabile, anziane signore inveiscono contro l'autista per l'ennesimo ritardo a nessuno imputabile. Clacson si alternano per scandire la prepotenza della fiumana di un progresso che si è ambientato con poco successo in una città ancora immersa nella venusta presenza del suo glorioso passato.

Proietto il mio sguardo oltre quel velo di vetro che mi separa dalla pioggia, e mi perdo nelle potenzialità dell'ambiente, dei suoi abitanti, perdendo così la cognizione del tempo.

"Grazie, me scusi, me stavo a 'nfradicia'.." una voce si insinua nel mio cervello, a colmare quei secondi di vuoto tra una canzone e l'altra. Mi giro per imbattermi in una figura ammantata e grondante di pioggia, intenta ad appiattire il biglietto ormai sciolto nella speranza di poterlo obliterare.

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