Capitolo 11

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Qualcosa mi dice che me ne pentirò amaramente.

Ho del tutto venduto la mia anima al diavolo... e il diavolo si chiama Michael Jones. Però l'ho venduta per ben centomila bigliettoni.

Dopo l'accordo di ieri mi ha dato il suo biglietto da visita, con tanto di numero di cellulare e indirizzo di casa. Mi ha detto di presentarmi lì da lui oggi dopo il lavoro ed ecco perché ora passeggio per le strade di Manhattan con un biglietto in mano e l'aria sperduta.

Ok, non vado fiera di ciò che ho fatto. Va contro tutti i miei principi morali, ma date le numerose disgrazie che si sono susseguite nell'ultimo periodo, sarei stata una stupida a non accettare.

Con tutti quei soldi non solo potrò permettermi i lavori da fare nell'appartamento, ma potrò anche saldare l'affitto arretrato. Per non parlare di tutte le altre spese che ho ogni mese tra bollette, spesa e libri. Forse riesco anche a tornare a casa a trovare la mia famiglia! La famiglia... ora potrò aiutare Kit.

Devo pensare a tutti i benefici che il patto con il diavolo mi ha portato per non rimuginare sulla scelta presa. Almeno posso smettere di cercare sui giornali annunci per un secondo lavoro.

In fondo, che alternative avevo? Se mi fossi rifiutata, lui avrebbe scovato un'altra soluzione e io invece mi sarei ritrovata senza soldi e senza manoscritto.

Possiamo dire di aver trovato una specie di compromesso. Anche se muoio dentro all'idea che il libro non avrà il mio nome sulla copertina ma quello di un altro. Se poi l'altro è l'odioso e insopportabile Michael Jones, ancora peggio!

Quando ho raccontato dell'accordo a Shauna, per poco non andava a ucciderlo. Nessuno l'avrebbe fermata, nemmeno il tutore alla gamba, ma poi le ho detto del risarcimento – se così vogliamo chiamarlo – e si è placata. Sa quanto io abbia bisogno di denaro in questo momento e alla fine ha ceduto, esattamente come ho fatto io.

Non è convinta dell'intera situazione, ma, per venirmi incontro, questa sera mi ha fatta uscire con qualche minuto di anticipo. In questi tempi sta diventando un'abitudine.

«In bocca al lupo. Anzi no, perché in questo caso il lupo sarebbe lui e tu devi stargli il più possibile alla larga. Se proverà a mettere di nuovo piede qui dentro lo picchio con le stampelle!» Mi ha detto poco prima che mi chiudessi la porta alle spalle. L'adoro!

Continuo a passeggiare sul marciapiede stracolmo di persone, dando un morso al panino che ho preparato in fretta e furia prima di lasciare il locale.

C'è mai un momento in cui le strade di questa città sono deserte? Il giorno in cui sono arrivata per la prima volta a New York, per poco non andavo in iperventilazione. Tutto è diverso dal posto in cui sono cresciuta e per quanto fossi abituata all'idea della Grande Mela, data da film e serie TV, dal vivo è tutta un'altra storia.

Col tempo mi sono abituata alla frenesia, alla confusione e alla gente di qui ma sarei una bugiarda se dicessi di non avere un po' di amaro in bocca. Nei miei sogni, New York non era così. Ma nei miei sogni non vivevo nemmeno nel Queens e non lavoravo in un bar.

E proprio quando pensavo che si potesse ancora credere nei sogni, quello che avevo chiuso nel cassetto da anni mi viene strappato via. E ora sono certa di una cosa: non si può credere ai sogni.

Persa com'ero nell'autocommiserazione, non mi sono accorta di essere arrivata a destinazione.

Jones ha detto di fermarmi quando avrei visto un palazzo di mattoni bianchi e direi di esserci. Spicca notevolmente tra le altre abitazioni gialle e rosse e, controllando il numero civico, capisco di non essermi persa e di essere riuscita a trovarlo.

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