Capitolo 6

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"Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno. Ma quello che accadrà in tutti gli altri giorni che verranno può dipendere da quello che farai oggi."

—Ernest Hemingway

Piccola strega. Piccola strega. Piccola strega.

Dopo la lezione di Letteratura corsi verso il dormitorio, guardandomi intorno con sospetto. Avevo la sensazione di essere seguita. La mia testa ripeteva in loop le parole con cui Elias mi aveva chiamata e mi sembrava di sentire davvero delle voci che mi ripetevano "piccola strega" nelle orecchie. Erano sottili, a volte dei sussurri. Sembravano voci di bambini.

Rabbrividii.

Entrai nell'ampio ingresso dell'edificio in mattoni, facendo cigolare le porte, che si chiusero con un tonfo alle mie spalle. Salii a due a due la scalinata centrale, poi svoltai a destra. Ma più camminavo lungo il corridoio, più questo sembrava allungarsi e diventare infinito.

Mi fermai, il respiro ansante che mi faceva battere il cuore all'impazzata. Provai a voltarmi, ma non vidi altro che il corridoio senza fine.

C'è qualcosa che non va. In questo maledetto posto c'è qualcosa che non va, pensai.

Provai a riprendere il controllo di me stessa. Non era il momento per avere un attacco di panico.

E se invece fosse stato quello, il problema?

Magari sto davvero diventando pazza. Sono stanca e provata dalle ultime settimane in accademia. Devo aver perso il lume della ragione.

Gli occhi mi divennero lucidi. Premetti le unghie nei palmi, sperando di risvegliarmi da qualsiasi cosa fosse quella situazione in cui ero capitata.

Non trovavo una via di fuga. Più cercavo di razionalizzare, più il senso di impotenza peggiorava.

Questa è un'università, Caillea. Certo, ci sono dei magici, ma nessuno può farti del male, mi dissi. È solo la tua testa. È solo il panico. Non hai fatto niente di sbagliato. Non hai fatto nulla di male.

«Sicura?»

Gridai.

«Chi c'è?» Mi voltai in tutte le direzioni, ma ero sola in mezzo alle pareti vittoriane che sembravano prima allargarsi e poi restringersi pericolosamente.

Non ero io ad aver pronunciato quella domanda. Era stata una voce cupa e torbida.

Il mio stato d'allarme aumentò e iniziai a sudare.

«Sei proprio sicura di non aver fatto nulla di male?» Ancora quella voce. Mi sembrava di conoscerla.

Trattenni un ulteriore grido di paura e iniziai a correre. Mi fiondai verso la direzione da cui ero venuta, sperando di trovare una via d'uscita. Ma, ben presto, il lungo corridoio iniziò a mutare e il pavimento si trasformò in roccia. Le temperature scesero, il tetto divenne cielo aperto e l'odore di zolfo e sale mi riempì le narici. Strascicai gli ultimi passi della mia corsa, rischiando di inciampare sui miei stessi piedi. E in un attimo ero di nuovo .

La scogliera a picco sull'oceano. Il mare in burrasca, il faro in lontananza.

No. No, no, no. Ti prego, no.

Ansimai. Mi sentivo stringere i polmoni. Caddi in ginocchio, singhiozzando, rifiutandomi di rivivere quel momento atroce. Il mio errore più grande, il peccato che aveva condannato la mia anima. Avrei voluto morire. In quel momento, non desideravo altro.

Mi strofinai gli occhi, le lacrime che mi rigavano il viso come il ruscello che solcava la terra vicino al cottage di famiglia. Piansi a dirotto, senza nemmeno provare a trattenermi. Quando alzai lo sguardo, davanti a me c'era una ragazza. Lo spazio aperto era diventato un cerchio chiuso. Erano le mura grezze dell'interno del faro. E lei. Lei era bella e innocente, proprio come me la ricordavo. Piccola, troppo piccola. Poteva essere mia sorella. E se ci fosse stata la mia Aine al suo posto?

CAILLEACH - Tra passione e vendettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora