Tre: Le Rondini

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Il corpo di Marie Luise venne arso lentamente nella torrida morsa delle fiamme.
Ogni lacrima di Laila era, per me, una pugnalata al cuore; prima dell'accaduto le avevo detto che sarebbe andato tutto bene, e che a nessuno sarebbe stato fatto del male.
Eppure, sua nonna era stata uccisa.
Il silenzio cristallizzato come ghiaccio nell'aria gelida che soffiava fra le topaie della Quarta Setta, malgrado il fuoco, fu stroncato dalla prima nota d'intonazione dell'Inno dei Defunti.
Era una lauda che assortivamo in onore di tutti gli uomini che perdevamo durante la Liturgia, un po' come un ultimo saluto; una gran percentuale di abitanti della Setta si riunivano nella Piazza per porgere il proprio addio ad un compagno caduto.
Questa volta, erano in molti a cantare per la Vecchia Saggia.
Un canto soffice come il candido manto della neve e tetro come la morte trivellava l'atmosfera rigida della Piazza Principale, venato dagli struggenti singulti di Laila.
«Doveva andare tutto bene.» Singhiozzò la mia migliore amica, lo sguardo fisso a terra. Le sue guance erano madide di lacrime calde e salate.
La studiai in volto, ma non trovai mai il coraggio di risponderle. Non c'era nulla da dire: i fatti accaduti erano fatali, inevitabili... ed entrambe lo sapevamo perfettamente.
Dovevamo solo accettarlo.
L'Inno si concluse in quel momento, e lentamente, l'affollamento confluì.
«Come stai?» Una voce morbida soggiunse alle mie spalle. Non dovetti nemmeno girarmi, per riconoscerla; Grenn, occhi neri come il carbone e sottili capelli bianchi, morbidi come la seta.
Nessuno era in grado di spiegare il perchè, malgrado la sua giovane età, Grenn presentasse già quella zazzera di capelli marmorei. Tutto ciò che sapevo, era che li possedeva sin da bambino.
«Come stanno tutti, Grenn: non bene.» Sentenziai, spostando lo sguardo verso quei suoi grandi occhi di petrolio.
Lui sospirò, e il suo sguardo indugiò sino a Laila.
La ragazza continuava a fissare pavimento, lo sguardo perso nel vuoto... forse vagante nei vacui, nostalgici, dolorosi ricordi.
«Mi dispiace per Marie Luise.» Farfugliò il ragazzo.
Egli era più alto di me - intendo, molto più alto di me - ed il suo corpo era snello come un chiodo.
Nonostante i suoi diciassette anni, Grenn lavorava già agli opifici metallurgici, dove forgiava il ferro battuto. Era un lavoro arduo e faticoso, ma i muscoli che gli gonfiavano le braccia erano senz'altro la prova della sua innata risolutezza.
«La morte è di tutti e di nessuno, Grenn. Per un certo verso, Marie Luise è stata più fortunata di alcuni di noi.» Tentai di minimizzare. Peccato che non riuscii a convincere neppure me stessa.
«A volte, sono i vivi a morire, piuttosto che i veri caduti.» Soggiunse Laila, avvicinandosi a noi. Si asciugò una lacrima che, silenziosa, le rigava il viso pallido.
Tremava come una foglia al vento.
L'abbracciai velocemente, cercando di trasmetterle quanto più calore possibile.
«Vuoi stare un po' da me?» Mi offrii con tono gentile. Lei però scosse il capo, e finalmente alzò i suoi occhi, gonfi e rossi di pianto, su di me.
«No, tranquilla. Mi faccio un infuso e vado... e vado a dormire.» Le si incrinò la voce, ma nonostante tutto, tentò di sorridermi.
Poi, si avviò verso un sottile viottolo, che sfociava in un dedalo di casupole malandate.
«Sei sicura che le faccia bene stare sola?» Domandò Grenn non appena Laila imbucò in una via ombrata, cabotata da botteghe dalle insegne sfarfallanti, e abitazioni sciupate.
«Penso che debba sfogarsi. Lasciamola fare, magari poi starà meglio.» Soffiai. Grenn non parve convinto.
«Magari sì.» Decretò, con una scrollata di spalle, forse dovuta al freddo, forse all'afflizione, alla paura.
«Ho trovato un bel posto dove potremmo stare, vieni a vederlo?» Liquidò l'argomento, guardando lontano, alle mie spalle. Il ragazzo ammiccò un sorriso.
Grenn aveva due anni più di me.
Ci conoscevamo da molto tempo prima di essere spediti a lavorare senza limiti, a ristagnare e a morire di fame nella Quarta Setta: le nostre famiglie erano molto amiche, e per diverse cause la mia era debitrice alla sua, perciò non era raro ritrovarmi in sua compagnia.
Solitamente, io e lui andavamo a visitare posti disabitati, o ci arrampicavamo sugli alberi più alti per vedere oltre le barriere di metallo che separavano le Quattro Sette.
E lentamente, queste scappatelle erano divenute una consuetudine, quasi un'usanza, che si protrasse nel tempo... fino ad ora.
«Non so, Grenn. Probabilmente in questo momento dovrei già...»
«Fantastico, allora andiamo.» Sentenziò, interrompendomi.
Mi prese per un polso, e, mio malgrado, mi trascinò via.

Ci lasciammo alle spalle la Piazza Principale quasi immediatamente.
Proseguimmo verso viottoli stretti, imboccando biforcazioni di strade, crocevie, diramazioni e incroci; il tutto mentre correvamo come pazzi, schivando la gente che intrecciavamo di tanto in tanto sotto quel cielo plumbeo, che iniziava ad imbrunire.
«Ma dove stiamo andando?!» Urlai, per sovrastare il vento che fischiava insistente alle nostre orecchie.
«Corri e basta, Joel.» Rintuzzì Grenn, sorridendo.
L'ultima stradina del cuore della Quarta Setta ci fu in coda molto presto: ora ci ritrovavamo al confine estremo, con la barriera che si ergeva in tutta la sua grandezza dinanzi a noi.
Tremila metri d'altitudine si stagliavano di fronte ai nostri occhi, in quel muro di limpido metallo condenso.
Pareva andare oltre il cielo, sfiorando le nuvole e giungendo al sole che, piano piano, declinava, tramontava.
«Siamo arrivati?» Domandai estasiata, mentre tentavo di scovare la vetta di quell'immensa transenna d'acciaio freddo. Essa però era celata dietro il vapore fitto delle nuvole plumbee.
«Non ancora, vieni.» Sorrise Grenn.
All'inizio, non me ne accorsi neppure: avevamo ripreso a correre, 'sta volta sulla ferrovia peregrinante lungo La Barriera, che importava le merci acquistate nelle altre Sette.
La strada ferrata mi faceva male ai piedi ad ogni passo, specialmente con le scarpe dalla suola consumata che mi ritrovavo... eppure non mi ero mai sentita tanto libera come in quel breve istante.
Attorno a noi sfrecciavano gli espedienti per il trasporto merci, gru imponenti e altri congegni meccanici di complessa struttura; macchine, autocarri, furgoni, ruote di gomma, argani e ancora carrelli mobili, assi di metallo e di legno buttate in modo sciatto sul pavimento corroso.
Eppure, in quel caotico mondo metallico, col vento che mi sferzava la pelle del viso, mi sentii viva: i miei piedi andavano avanti automaticamente su quella strada ferrata, donandomi quella fantastica illusione di libertà che mi purificò l'anima.
Alzai le braccia al cielo nel momento in cui la neve iniziò a cadere, le mani ancora strette in quelle di Grenn, mentre correvo al suo fianco, la cui risata riecheggiò nell'atmosfera gelida.

Più tardi scoprii il luogo sottinteso da Grenn.
Con la neve che fioccava sopra le nostre teste, e gli sbuffi d'aria rigida che ci denigravano la pelle, siedevamo spossati sull'estremità di uno strapiombo, a qualche metro di lontananza dalla ferrovia, con i piedi altalenanti nella leggerezza del vuoto.
Sotto di noi si ergevano gineprai di vicoli e labirintiche strade, tutte collegate fra loro da strette ramificazioni, costeggiate da case diroccate e coperte da un candido manto di neve.
Il tutto costituiva nientemeno che le ridotte abitazioni della nostra Setta, estesa sotto la cinerea volta celeste, che s'indirizzava al buio notturno.
Poggiai la testa sulla spalla erculea di Grenn, mentre osservavo la triste immobilità del mio sobborgo.
«É silenzioso, qui.» Osservai, la voce leggermente arrochita.
«Silenzioso e disabitato. Qui i problemi sfarfallano via, per questo mi piace.» Spiegò Grenn, addossando la sua testa alla mia.
«Già.» Lanciai una lesta occhiata alla colossale barriera che s'ergeva titanica; sottoposta al suo sguardo quasi materno, mi sentivo in qualche modo... protetta. Piccola e impotente, sì. Ma protetta.
«Senti, Alaska, avevo... avevo forgiato questo, l'altra volta. Volevo dartelo questa mattina, nel caso io non avessi superato il test della Liturgia. Però non ti ho vista da nessuna parte, così...» Balbettó di punto in bianco. Non si fermò ad attendere una mia reazione: si infilò una mano in tasca, per pescarne un piccolo arnese circolare di ferro liscio e terso.
Era abbastanza stretto, e sopra c'erano incisi dei simboli.
Me lo porse; passai il dito su quelle scalfitture che penetravano il bracciale di metallo.
«Sono rondini. Rappresentano la felicità, la purezza e la libertà. É il simbolo dell'eterno ritorno.» Grenn me lo mise al polso, con fare gentile, come un bacio.
«É bellissimo, Grenn.» E lo era davvero.
Lui sospirò, le labbra incurvate in un sorriso.
Il suo profilo era ombrato dalle luci cremisi del tramonto che andava a sfumare nel blu scuro della notte; quei suoi riccioli bianchi si confondevano con la neve che, soffice come un gomitolo di lana, cadeva indisturbata sopra le nostre teste.
«Almeno, se mi succederà mai qualcosa, morirò con l'appagante certezza di aver lasciato un pezzo di me all'unica persona importante della mia vita.»
Sorrisi, e lo abbracciai.
Restammo così, avvinghiati l'un l'altro immersi in quell'evasiva quiete, mentre la notte si avviava al suo lungo ritorno.

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