Prologo

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《Quando tutto attorno è buio non c'è altro da fare che aspettare tranquilli che gli occhi si abituino all'oscurità.》
HARUKI MURAKAMI

Il silenzio in quella stanza era spezzato solo dal costante ticchettio del vecchio orologio appeso alla parete color panna. Probabilmente quel lieve suono non avrei neanche dovuto percepirlo, considerando tutto il frastuono, fatto interamente da schiamazzi e musica, che proveniva da fuori. Ma io lo sentivo, forte e chiaro nella mia testa.

Ogni secondo che passava era scandito da quel fastidiosissimo rumore, che sembrava quasi rimbombare tra le pareti logore e piene di muffa del mio camerino.

Tic, tac. Tic, tac.

Sinceramente, avrei voluto con tutto il cuore prenderlo tra le mie mani e distruggerlo in mille pezzi. Purtroppo, però, quell'orologio mi serviva. Mi serviva perché era l'unico modo che avevo per non isolarmi nel mio mondo, tra i miei pensieri; era la mia piccola ancora per la realtà.

Mentre sedevo in modo abbastanza scomposto sulla poltrona di velluto verde scuro, posta proprio davanti alla grande toeletta piena di trucchi, respiravo a fatica e tenevo gli occhi fissi su quell'orologio. La mia mente lavorava fin troppo velocemente, ripassando a memoria tutte le mosse e i passi che da lì a poco avrei dovuto fare sul palco.

Tic, tac. Tic, tac.

Le lancette si muovevano piano, quasi a rallentatore, ma io non vedevo l'ora che segnassero le due in punto: il momento in cui sarebbe iniziato lo spettacolo, il momento in cui sarei andata in scena. In fondo si sa, prima si inizia e prima si finisce. E mentre aspettavo, sentivo anche il mio cuore rimbombare tra quelle quattro mura, come se stesse facendo una sorta di gara con le lancette dell'orologio a chi andava più veloce.

Continuavo nervosamente a controllare il trucco, a sistemare i capelli, a lisciarmi le pieghe quasi inesistenti di un costume fin troppo striminzito e appariscente per i miei gusti e, allo stesso tempo, mentalmente tenevo conto di ogni singolo rintocco di quell'orologio.

Tic, tac. Tic, tac.

Ad un tratto percepii delle voci, al di fuori della stanza, sovrastare il rumore generale e farsi sempre più vicine e, poco dopo, la porta del camerino si aprì, rivelando la figura di una delle mie colleghe. "Sei pronta? Tra poco è il tuo turno, tocca a te!" Chiusi gli occhi, rilassai i muscoli tesi delle spalle e annuii decisa; era finalmente arrivato il momento.

Mentre mi alzavo dalla poltrona, mi guardai un'ultima volta al grande specchio che si trovava proprio di fronte a me. Impeccabile come sempre.

Respirai a fondo nervosamente. Quanto ancora sarebbe durato? Quanto ancora avrei dovuto fingere? Quanto ancora avrei dovuto sopportare? E, soprattutto, quanto ancora sarei riuscita a sopportare?

Ciò che mi preoccupa veramente, però, non era nessuna di queste domande, ma la consapevolezza che io non sapessi dar loro un'effettiva risposta che fosse definitiva.

Mi sudavano i palmi delle mani e il mio piede continuava a sbattere imperterrito sul pavimento. Ero sicura che il trucco, a causa del caldo provocato da tutte quelle luci, si sarebbe rovinato, come si sarebbe rovinato anche il body pieno di lustrini che indossavo se continuavo a giocarci cercando di alleviare l'ansia.

Sorrisi tra me e me considerando il livello di nervosismo che avevo accumulato per un qualcosa che avevo fatto decine e decine di volte.

Le esibizioni erano sempre impeccabili, anche perché era ciò che "Il Grande Capo" pretendeva da noi ballerine, ma mostrarmi in quelle vesti mi faceva, ogni volta, venire un magone allo stomaco. Un magone che dovevo ovviamente ignorare.

Respirai a fondo un'ultima volta e, in quel momento, mentre mi chiudevo la porta alle spalle e lasciavo la stanza per avviarmi verso il palco, il ticchettio dell'orologio si faceva sempre più rapido, più urgente. Quel ticchettio stava seguendo esattamente il ritmo del mio cuore.

Don't Let Me Love YouDove le storie prendono vita. Scoprilo ora