Capitolo 19

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Presente

Uscii dalla mensa lasciandomi alle spalle i mormorii sommessi, mentre stringevo con forza il cellulare, stralunata. 

Lessi ancora una volta le parole sullo schermo. Si trattava di un avviso che era arrivato a tutti nello stesso istante e, probabilmente, a tutto lo stato del Minnesota.

Data la frequenza di attacchi criminali che coinvolgevano fin troppi innocenti, avevano pensato di inviare un messaggio di allarme in caso di previsioni, in modo tale da non far lasciare le abitazioni.

Ero talmente sbigottita e dubbiosa sulle capacità di quel sistema, che mi accorsi dopo qualche istante di essere stata afferrata per il polso.

«Dio!» urlai, presa alla sprovvista. Mi voltai, rasserenandomi alla vista del ragazzo dai capelli rossi sempre ordinati. Mosse la testa a destra e sinistra. «No, sono Aiden».

Il cipiglio formatosi si distese nell’udire la sua voce. Non lo vedevo da tre giorni e, malgrado fosse colpa mia, mi era mancato terribilmente.

 «Mi stai evitando di nuovo».

«Non è vero», risposi, ma il tono di voce tradì le mie parole. Non ne fu convinto e ne ebbe la certezza nel momento in cui si abbassò per lasciarmi un bacio e io, in un gesto automatico, girai la faccia per far scontrare le sue labbra con la guancia.

Deglutii e senti il mio cuore tremare di dolore. In quei giorni avevo riflettuto parecchio ed ero arrivata a una consapevolezza: avevo paura del nostro rapporto. Troppa. 

Temevo che, prima o poi, il suo filo di controllo e certezze si sarebbe spezzato, e lui con esso. Non volevo che accadesse, ma sapevo che con il mio comportamento facevo del male a entrambi.

Il modo in cui mi guardò mi fece sentire anche peggio. I suoi lineamenti erano distesi come al solito, ma furono i suoi occhi il problema. Quelle pagliuzze di cristallo che mi scrutavano confuse e afflitte. Riuscii a percepire la sua angoscia: del resto, era la stessa cosa che provavo anch’io. 

Fece scivolare i polpastrelli ancora stretti attorno al mio polso, fino al palmo della mano e poi ancora più giù, per intrecciare le dita con le mie. Osservai il punto in cui la pelle si toccava e lo stomaco mi si chiuse. 
Alzai lo sguardo su di lui. «Vieni con me».

Accettai di seguirlo, seppur titubante. Avevo bisogno di altro tempo per pensare e la sua vicinanza non faceva altro che farmi desiderare un suo bacio, o una sua carezza.

Fissavo le mie scarpe nere ad ogni passo, la mano ancora stretta nella sua. Imboccammo un corridoio che non avevo mai percorso e, dopo pochi istanti, si fermò. Quasi finii contro la sua schiena, ma riuscii a tenere l'equilibrio. Mi spostai per vedere la porta davanti alla quale si era bloccato. 

Il planetario.

Lanciai un’occhiata ad Aiden, che la ricambiò in maniera rassicurante. «Ho chiesto al presidente del club di astronomia di potermi lasciare la stanza per un’ora e ha accettato in cambio di una ricerca di storia», affermò.

«Non dovevi», mormorai, nonostante il sollievo di non dover interagire con Hannah. «Non dovevo, infatti. Lo volevo».

Frugò tra le tasche e quando trovò la chiave, la infilò nella serratura per aprire la porta. Nemmeno allora lasciò la mia mano. Sembrava credesse che facendolo, sarei scappata via.

Appena entrai, ne rimasi affascinata. La prima cosa che notai fu l'oscurità avvolgente, interrotta solo da deboli luci blu o rosse lungo il perimetro della sala, che sembravano guidare i nostri passi.

Al centro della stanza era presente una cupola ampia e rotonda. Girai su me stessa, dovendo interrompere il contatto con Aiden. Le pareti erano dipinte di un blu scuro o nero, contribuendo a creare l'illusione di essere all'aperto sotto un vasto cielo stellato. I sedili reclinati erano orientati verso la cupola, per offrire una visuale perfetta. 

Una vita a metàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora