Uscita

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Bella

Mi sistemai i pantaloni per la settima volta.

Io e Gojo stavamo per avere un'uscita.
Un appuntamento.

Facevo avanti e indietro sul marciapiede di fronte al condominio, in preda all'emozione.

Perché ero così agitata?
Oh, giusto.
Di appuntamenti e uscite con un ragazzo ne avevo avute due o tre in totale.

In tutta la vita.

Il mio sguardo si fissò sulle nuvole bianche all'orizzonte. Niente, anche il cielo azzurro e quei riccioli soffici e candidi mi ricordavano lui, il suo viso, i suoi occhi chiari e scintillanti, i capelli morbidi e puliti...

Realizzai che giorno fosse. 4 maggio, un giorno dal mio compleanno, e quasi quasi sussultai. Di già?

"Bella!" Mi chiamò qualcuno da dietro.
Mi girai di scatto.

Eccolo lì. Correva e saltellava verso di me, sorridendo.
Non aveva la benda sugli occhi, ma degli occhiali scuri, e indossava una camicia.

'Niente uniforme stavolta!' Pensai, sorridendo tra me e me mentre alzavo la mano per salutarlo.

"Andiamo" mi disse, afferrandomi la mano e trascinandomi via, senza neanche smettere di correre, spiegando a mezza bocca che 'non voleva perdere lo slancio', facendomi ridere e arrossire allo stesso tempo.

Stavamo passeggiando lungo una vecchia via.
Erano già le sei di sera, e pensare che ci eravamo incontrati solo alle due.

Non credo di essermi mai sentita così a mio agio con qualcun altro come in quel momento.

Il tempo non sarebbe stato abbastanza comunque, sempre.

Gojo indicò un cancello arrugginito, a meno di cinquanta metri da noi.

"Quello è un vecchio cimitero," constatò. "E percepisco qualcosa di strano..." Neanche il tempo di terminare la frase che si sentì uno scalpiccio di zampe, e un rumore quasi...flaccido.
Molliccio.

Uno squish squash che ricordava il rumore di un passo fatto per sbaglio nel fango.

Mi girai verso Gojo, o meglio...
Dove prima si trovava Gojo.

Sparito.
Svanito.
Scomparso.
Volatilizzato.

"Gojo?" Chiamai timidamente.

Silenzio.

Lo squish squash e i passettini si facevano sempre più forti.
Il cancello cigolò all'improvviso, attirando il mio sguardo e la mia attenzione.

Una delle creature - se così si può definire qualcosa del genere - più ripugnanti che io avessi mai visto si mostrò ai miei occhi.

Troppe pupille, troppe dita, troppe poche orecchie.

Troppo tutto.

La pelle violacea scintillava alla luce rossastra del tramonto e dei palazzi di centro Tokyo.

Aprì una delle parecchie bocche che possedeva e fece un rumore: un verso a metà tra un cinguettio e il raspio di una motosega.

Mi fissò per un momento, puntando su di me almeno la metà degli occhi che possedeva.

Poi caricò.

"No...no...no..." squittii velocemente, incapace di muovermi, il...coso che zampettava sempre più furiosamente verso di me.

Guardai a sinistra, poi a destra.

Cosa potevo fare?

Rimasi incollata all'asfalto.
In quel punto era così rovinato che mi ricordava le strade di Roma.

Aspettate.

Qualcosa che potevo fare c'era.

Sollevai lo sguardo verso il mostro.

E realizzai.

Quella era una maledizione.

E io...

io...

Io ero una stregona.
Lo ero stata.

Aprii leggermente le labbra, un solletico leggero sulle guance, sentendo un peso che avevo da fin troppo tempo nel petto spezzarsi e sbriciolarsi.

Proprio mentre la creatura- no, la maledizione balzava per saltarmi addosso...

"Disperditi."

Un crescendo gutturale;
due, tre note.

La mia voce, strumento semplice, era diventata qualcosa di unico e potente.

Il mostro si bloccò a mezz'aria per un momento, e poi, senza preavviso, svanì in spirali di fumo viola scuro.

Il mio cervello caricò improvvisamente quello che avevo appena fatto.

I ricordi mi inondarono la mente, gli occhi, le mani, il petto. Il peso che credevo fosse finalmente caduto dalle mie spalle mi ripiombò sulla testa, facendomi male, troppo male.

Il senso di colpa si insinuò nel mio naso, arrotondandosi crudele e sinuoso, raggiungendomi la fronte, le tempie, la testa, la nuca, uscendomi dalle orecchie e arrotolandosi intorno alla bocca, serrandomi le labbra, mettendomi una collana di dolore intorno al collo, impedendomi di parlare, di respirare.

O di cantare di nuovo.

Con lo stesso dolce pizzicare, familiare ed estraneo allo stesso tempo, sentii che i segni neri sulla lingua e sulle guance stavano sparendo.

Le prove fisiche che avessi usato ancora una dannata volta il Canto Diabolico non c'erano più.

Caddi in ginocchio, il respiro corto e affannato, in preda ad un attacco di panico di prima scelta.

"Bella!" Disse una voce, sentendola come attraverso un lunghissimo tubo.

Qualcuno si inginocchiò accanto a me, mi sollevò il mento. Si tolse gli occhiali dagli occhi e mostrò quei due meravigliosi e scintillanti angoli di paradiso che aveva nelle iridi.

Mi chiamò di nuovo, l'espressione preoccupata e confusa che aveva sul viso offuscata dalle lacrime che traboccavano dai miei occhi, che mi rigavano le guance.

"Il sigillo...ho rotto il sigillo..." Balbettai, la voce rotta e sconvolta, il senso di colpa che mi travolgeva di nuovo come una tempesta, una calamità naturale distruttiva e inarrestabile.

Gojo mi raccolse da terra, un fagotto tremante di lacrime e dolore. Mi tenne stretta al petto, mi abbracciò forte, pulì le lacrime che continuavano a scendere con i pollici, cercò di calmarmi sussurrandomi frasi sconnesse e dolci che non riuscii nemmeno a sentire.

"Il sigillo..." Balbettai ancora una volta, prima di svenire.

Un caffè dagli occhi bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora